lunedì 2 aprile 2018

giovedì 17 aprile 2014

Storia di Racalmuto


STORIA DI RACALMUTO

di Calogero Taverna

 

CENNI GEOLOGICI

In sede scientifica non si ha dubbio alcuno che la Sicilia sia una terra “geologicamente recente”([1]). Concetto in ogni caso relativo: occorre, infatti,  riandare indietro, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’attuale isola. In un primo momento,  “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo con epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.

Quanto a Racalmuto, il suo territorio ebbe a configurarsi nelle forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario. E ciò stando ad una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([2]).

Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - egli afferma ([3]) - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:

1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;

2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;

3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese. 

4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).

Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»

Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura  uno straordinario microscopico batterio, ildesulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo» ([4]). Secondo tale affascinante teoria,  le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di simbolica premonizione.

 

LA  PREISTORIA

 

Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens dei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.

Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,  in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.

Il primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito ' sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. (Cfr. S. Tinè: L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.).

Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca sicuramente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso  si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18; 19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Esso venne documentato durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([5]) I reperti fittili salvati dal Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano, nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo sono andate del tutto distrutte per lo sfruttamento delle cave di pietra.

Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte dirigente delle ferrovie che fu Luigi Mauceri ([6]). Apprendiamo da questa fonte che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([7]) Si passa alla descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([8]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([9]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio economiche, si ignora del tutto. Possono slo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire alla prima fase dell’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo pare quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([10]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure qui nulla si trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Nè vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Dunque è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.

VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.

Non riusciamo a sottrarci dalla tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi.

Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno», ove è presente il corredo di vasi e oggetti fittili ([11]).

Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono  a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'età del Bronzo e di quella del Ferro in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo.

Ad un certo punto si ebbe, però, una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi. Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,  si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo sconquasso.

I moderni storici  si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con  nozze coatte.

Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. Racalmuto era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi  di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Per qualche secolo ancora Racalmuto poté restare libero territorio anellenico.

Ma  giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride,  nel sesto secolo a.C., per le popolazioni di Racalmuto fu l'inizio di una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la  riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione del tempio a Zeus che si attribuisce a Falaride. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni  siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e  misantropi ma irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e liberi. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con rimarchevole continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.

IL PERIODO GRECO

Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto diviene pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.

Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polisdi Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti a Racalmuto sono i soli indici della loro presenza.

E' certo che sino a quando non vi saranno sul nostro territorio scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre sul circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture. Solo 'MALGRADO TUTTO' nell'ottobre del 1990 riporta il pensiero di Rosalba Panvini che reputa la scoperta archeologica degli operai dell'ENEL in contrada Grotticelle 'molto interessante' e pensa che «siamo in presenza di due strati archeologici che coprono un arco di tempo che va dal III secolo avanti Cristo al II dopo Cristo».

Nell'accennata campagna di scavi del 1960, le importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, portavano a attribuire a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - sfiorisce in un patetico dilettantismo. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.

Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel  451 o o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò il territorio dell'attuale Racalmuto: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso.

Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare una aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.

Racalmuto continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con il tiranno di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.

 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone dalla canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese.

E a Racalmuto circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.

Sfiora la  società contadina racalmutese la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.

Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.

Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito d' Alcibiade, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo  per prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quellapolis, ne segue le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina

Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata.

I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto dovette essere per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.

Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione che gravava sulla la popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.

Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, a Racalmuto si apriva un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si ribaltava in buoni affari per Racalmuto.

L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.

Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione  o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi,  ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.

LA PARENTESI CARTAGINESE

Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di  breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.

Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio -  ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.

Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e  vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire  espansionistiche della repubblica romana.

Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia di fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».

Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati:  25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.

Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.

Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.

Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma  fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.

 

IL PERIODO ROMANO

Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia  al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma.

Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con  la  lex Rupilia del 132.

E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicaniappaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.

Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.

Nella contrada di S. Anna  agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.

E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato  da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237  il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:

 

C* PP. ILI* F* FUSCI
      RMUS. FEC.

 

Il  Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi  (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota  ed eludendo ogni commento prosopografico.

Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.

Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale  ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius FuscusSalinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.

Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età,  come si evince dalle Verrine di Cicerone.

Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna.

Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto,  ma di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.

Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.

Il primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva questa preziosa corrispondenza .

 « All’Isp.  degli scavi e dei monumenti Cav. Picone. Girgenti - Roma, addì 3 novembre 1877.

 

Oggetto: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree.

 

Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli. F.to Donati

 

 

^^^^^^

 

"Lettera del Picone, Ispettore degli scavi - 28 dicembre 1877 - Repertorio al protocollo 1878 n.° 16"

 

Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.

In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :

 

MANCIPYM/

SULFORIS

SICIL

 

Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea

 

EX. OF. (ex officina)

 

come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.

 

Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tenore di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.

L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei. ([12]

 

 

Successivamente vi un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla Famiglia La Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.

KAIBEL e MOMMSEN ne fecero oggetto di studio nei rispettivi CORPORA, senza però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un sepolcro, presumibilmente  nei dintorni di Santa Maria.

 Quell'insigne archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava sul  bollettino dell'Accademia dei Lincei ([13])

Altri reperti di tali «tegulae» sono stati rinvenuti in gran numero nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([14]), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.

Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in  quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([15]).

Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22.10.1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob  ruinam salis repentinam, defunctus est»,  è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.



[1]Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[2]L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[3]Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -GEOLOGIA  - Università di Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[4]Pratesi e Tassi: Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss.
[5]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[6]) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata  e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e direttore  dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo:  ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[7]Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[8]Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[9]) Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[10]Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale.  - Roma 1983 - pag. 114.
[11]Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale.  - Roma 1983 - pag. 14.
[12]) A.C.S. di Roma - Fondo:  ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[13]) NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[14]) KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[15]B. Pace, Arte e Civiltà, I pp. 393-4

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