sabato 29 aprile 2017

Poggio Poponesco Famiglia Papale
PPoggio Poponesco fu il vero centro abitato sotto la sua svettante torre appena usciti dal medieevo. Disponiano di un "apprezzo dello Stato di Cicoli (1651)" che ci riporta addirittura al1595 ove emerge la indubitabile maggiore importanza  di quella che allora si chiamava "Terra seu Castello di Poggio popinisco" rispetto alle sue pertinenti "sei ville con habitationi del modo infrascritto di fuochi  cento e diecinove nella nuneratione dell'anno 1595" (vedasi ìallegata riproduzione di carte relazionali custodite nell'archivio di Napoli).
 
Fiamignano? Beh solo "prima villa". Denominata Fiamignano  ... sta distante un quarto di Miglio di fuochi effettivi n.ro 28 aperta et esposta à mezzo giorno, et ponente  sotto la falda della montagna nominata Serra".
 
Fiamignano invero era però quasi pianeggiante: "l'habitatione edificata  [è] la maggior parte in fuochi piani  et poco in loco pennente verso ponente; fabricate de pietre vive in primo e secondo ordine et alcune in terzo ordine coverte al geneale à tetti, con suffitti et à parte d'esse con intempiature, et ornamenti alle porte, finestre , et Ciminere de pietre de tufo forte di color  pardiglio essendovene di cinque Case  comode con buona abitatione. Dentro l'habitato di detta villa è un sola chiesa parrocchiale  sotto titolo di SS. Fabiano et Sebastiano a due nave coverta à tetti ... "
 
Avremo tempo per altri dettagli religiosi e civili. Fermiamoci qui. Chi poteva abitare in quelle CINQUE CASE "comode"? Niente Maoli né Ferretti, né Mari, né Novelli. Effettivamente stavano altrove. Vi stavano però gli Aniballi impresari dei trasporti. Erano VATICALI. La cosa mi interessa particolarmente trattandosi di antenati di mia moglie.  Vi erano pure i Lugini anche se purtroppo il "bracciale" Gioachino Lugini di anni 42 in moglie aveva Anna aria Marrone di anni 38. Vi stavano anche i Massimetti, i Ferrarese, i Fontana, i LANCIA, i Quinti e i D'Alessandro- Non mancavano i Morelli, che peraltro erano imparentati con i Silvi.  Massaro Marcantonio Fabri di anni 46 occupava  l'ultimo fuoco e non solo credo numericamente.  Purtroppo di spicco erano  i Calabrese, i Giuliani, e poi anche massaro Nicola di Giovanni Pasquale Angelini di 68 anni stava pure lì in certa rilevanza al fuoco con "codice E 36". Ho detto purtroppo in quanto all'improvviso cercano di massacrarmi. Ma ovvio sono io coriaceo per impressionarmi
 
Invece valido ora e valida la sua famiglia era quella del PAPALE. Ferdinando Papale  di anni 32 "vive del suo" al n.ro  E21 di codice. La moglie Giovanna ha 28 anni, il figlio Felice di 7 anni "studia", credo destinato a farsi prete.
 
Don Ferdinando PAPLE ha ben 4 figli ad appena 32 anni. Ma deve addossarsi il peso di due sorelle nubili (Casimira e Colomba, rispettivamente di 20 e 18 anni). Comunque si può permettere un garzone permanente in casa: Lorenzo Fontana d 18 anni. (Cfr. fotocopia sotto). 
 
Don Ferdinando Papale è proprio ricco: ha proprietà immobiliari e terreni proprio sconfinati  Ne riportiamo giù fotocopia. Possiede 12 appezzamenti di terreno a Rascino;  a Le Cese sopra Poggio Poponesco; un Cerqueto sopra la Madonna (Fiamignano) e là anche un terreno sodivo; sotto la terra dei Cappuccini: cerqueti, terreni sodivi e terreni arativi. ben di Dio alla Fonte dell'Acera; altri beni della specie alle Calcara e sotto le case di Fiamignano. Beni anche sotto San Sebastiano, castagneti alla Selva; prati naturali all'Aquilente, a Rascino Lacosecco, Capo il Campo e sopra Lacosecco e li Coppi- Dentro Fiamignano ha la sua dimora, sicuramente una delle cinque Case Comode con un orto per uso proprio  vasto 37 canne.
Complimenti  don Ferdinando Papale.    
 
 
 
 
 
 
 
 
Lillo Taverna il parlare stercale del Tranchese mi fa rabbrividire
Giuseppe Tranchese
Giuseppe Tranchese Sciacquati la bocca prima di parlare dei napoletani. Se questo poi è un parlare stercale, rabbrividisci pure
Sebastiano Pisterzi...
Sebastiano Pisterzi Sig Taverna leggo molto spesso i suoi post ed in tutti risalta la sua acredine verso il ( cda) e la stessa Csr, ora in quest'ultimo anche contro le persone. Ho molti amici come dice lei....napoletani e per me sono delle persone stupende. E a mio giudizio in quest'ultimo scritto ha avuto un calo di stile.
Ossequi e buona giornata
Lillo Taverna Questa cantilena napoletana mi mette di buon umore. Certi imbecilli privi di idee e di cervello si rifugiano nel vacuo partenopeismo, quasi ancora fossimo nel regno delle Due Sicilie. Io non giudico il partenopeo. Ho fatto molte ispezioni nel napoletano per non sapere il buono ma anche il cattivo e persino il pessimo di quella travagliata terra. Giudico l'abile imbroglio elettorale di un singolo partenope. E per questo mi dovrei sciacquare la bocca? Lo faroò dopo che qualcuno faccia il bidet al suo graveolente deretano.
ma banchieri non si nasce e Papi non è un banchiere e la CSR ha cessato di essere il retrobottega della beneficenza corruttrice della BI. Ora o la CSR riesce ad esere banca con sportelli e personale propri o la BI la sbologna. E Papi che fa? Ma a dire il vero con la riforma statutaia improvvida e non autorizzata ai sensi di legge dell'anno scorso il Presidente manco primus inter pares è- Papi non conterà nulla. Saranno Pisanti e la Sestilia a gestirci in questo occaso della evenescente CSR. A Papi solo il piacere di beccarsi 40 mila euro l'anno per fare NULLA. Insomma il funerale ce lo celebtrerà un missino. Camusso a cui hanno detto finalmente abbiamo una banca assisterà indifferente? Probabile. dottore Calogero Taverna già ispettore capo missione della Vigilanza sulle aziende di credito.

giovedì 27 aprile 2017

Segretario Nazionale di Sinistra Italiana - deputato
AOL
Il NO dei lavoratori di Alitalia all'accordo aziendale ci parla in maniera chiara e netta, qualora ce ne fosse ancora bisogno, della condizione del paese e di ciò che si muove non tanto nella pancia, ma nella testa dei cittadini, dei lavoratori. Quel NO mette inquietudine, perché di fronte alla scelta capestro messa in campo da azienda e governo di mangiare la minestra che passa il convento, i lavoratori hanno preferito il salto nel vuoto. "Buttarsi dalla finestra", dice il vecchio proverbio.
Era già accaduto mesi fa con i lavoratori di Almaviva, mentre i soliti commentatori benpensanti, dal caldo dei loro osservatori, si scandalizzavano di fronte a lavoratori che erano disposti a ribellarsi nonostante il rischio di perdere il lavoro piuttosto che accettare nuove umiliazioni.
Per anni abbiamo assistito al progressivo arretramento dei diritti dei lavoratori e alla compressione dei loro salari, indotti da una classe politica che si era apprestata a fare da scendiletto al potere economico, in nome delle più svariate motivazioni: "è il momento dei sacrifici", "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità", e altre amenità simili. Il sottinteso è sempre stato che "visto che un lavoro ce l'hai, non lamentarti e lavora, quali che siano le condizioni".
E per anni i lavoratori, a testa bassa, hanno ingoiato qualunque scusa e qualunque condizione.
Oggi non è più così, e a rischio di perdere di tutto, hanno deciso di alzare la testa e di dire NO, di rifiutare compromessi al ribasso sulla propria pelle, di non riconoscere più nessun elemento di mediazione che preveda la mortificazione (l'ennesima) della propria condizione materiale di vita di fronte, peraltro, all'assenza di qualsiasi credibile piano industriale. Con la consapevolezza che recuperare la propria dignità possa significare anche l'estrema conseguenza di non avere più nemmeno un lavoro.
Anche perché per anni mentre gli stipendi venivano decurtati, le ferie e le malattie non pagate, i congedi parentali negati, i manager dividevano utili e si avvantaggiavano delle stock option.
Ecco, quando parliamo di unità della Sinistra, penso che dovremmo partire dall'analisi di ciò che si muove nel mondo reale, nella società, nel mondo del lavoro, prima di considerare e dare per consolidati gli schemi del panorama politico.
In queste ore si parla molto del caso francese, e cioè della distruzione dei partiti "storici" della quinta repubblica francese (socialisti e popolari) e dell'avanzata importante dei partiti anti-sistema, fra cui il Partito di Sinistra di Jean Luc Melenchon. L'ennesimo campanello per la Sinistra in Europa, dopo Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Ognuno di questi paesi ha fatto un'esperienza simile in questi anni, con l'affermazione di un punto di vista più netto sulle ragioni della crisi delle classi meno abbienti e sulle soluzioni necessarie.
Lo stesso ragionamento lo propone in una intervista Massimo D'Alema, qui su questo giornale.
Forse è perfino superfluo che lo si dica noi, visto che da qualche anno, come è noto, poniamo la necessità di una Sinistra anti neoliberista e visto che Sinistra Italiana è nata sulla base di questa analisi, ma voglio chiarirlo subito: D'Alema propone un punto di vista interessante e voglio evitare che il suo appello cada nel vuoto.
L'unità della Sinistra è importante, certamente, ed è altrettanto vero che presentarsi alle elezioni politiche con tre o quattro liste a sinistra del PD potrebbe essere poco intelligente.
Il punto, però, è come ci si presenta, su quale piattaforma e per fare cosa. Lo dico subito: non siamo appassionati al tema delle leadership, né ci interessa il gioco delle biografie. Proprio per questo però non è possibile immaginare di costruire l'unità limitandosi alla somma di ciò che c'è, o peggio, alla somma di una parte di quello che si muove nello spazio plurale della sinistra italiana.
Inutile negarlo: siamo al punto in cui siamo, con strappi dolorosi negli ultimi mesi, anche all'interno di Sinistra Italiana, per un diverso approccio alle cose e per un diverso punto di vista sul mondo. Sarebbe sciocco negare, ad esempio, che una parte dei compagni che hanno lasciato Sinistra Italiana, lo ha fatto proprio perché non condivideva l'analisi di fondo che Sinistra Italiana propone e che, mi pare, incroci per molti aspetti le cose Massimo D'Alema ma anche Pierluigi Bersani stanno sostenendo in questo momento. Magari in nome della impraticabilità di un quarto polo e della necessità di ricostruire il centro-sinistra.
Per questo, penso sia necessario chiarirsi sul cosa fare e sul come farlo.
Prima di tutto serve una proposta coraggiosa. Chiudere definitivamente con la stagione in cui la teoria della "assenza di alternative" ha reso la cosiddetta sinistra di governo del tutto incapace di rispondere alla crisi e alle sue conseguenze sulla parte più grande e debole della società, fino a renderla quasi del tutto indistinguibile dall'establishement. Dunque una proposta radicale, capace di guardare alla radice dei problemi e segnare una netta inversione di rotta rispetto alle ricette neoliberiste.
Da dove partiamo, quindi?
Di fronte al disastro di Alitalia, ad esempio, chiediamo la nazionalizzazione della compagnia aerea?
Di fronte alle imposizioni di Trump sul raddoppio delle spese militari da parte dell'Italia per obbedire alla NATO e al suo scellerato neo interventismo bombarolo, siamo pronti a fare del disarmo, della riduzione delle spese militari e della moratoria sul commercio di armi una proposta centrale. E vogliamo cominciare a ridiscutere la nostra presenza nel Patto Atlantico?
È urgente e necessario chiarirsi e scegliere che strada fare, perché tutti quelli che hanno ricevuto schiaffi in faccia in questi anni non hanno alcuna intenzione di attendere gli accordi di gruppi dirigenti sul nulla.
Quelli a cui è stato tolto l'articolo 18, per esempio, e a cui io credo non si possa proporre un articolo 17 e mezzo, ma l'impossibilità di licenziare per le aziende che non sono in crisi, per riproporre uno dei punti di programma di Melenchon.
Così come è urgente discutere di riduzione dell'orario di lavoro, per rispondere non solo all'automazione crescente dei processi produttivi, ma anche all'esigenza di riconquistare tempo di vita; della revisione della tassazione, spostando il carico su chi ha di più; dell'introduzione del reddito minimo garantito, per contrastare povertà e ricattabilità dei più poveri e precari; parliamo di diritto alla salute, di diritto allo studio, del collasso del Mezzogiorno. E di altro ancora.
E poi viene il come farlo. E non è una questione secondaria. A me pare che quello che sta succedendo in molte città italiane in vista delle prossime elezioni amministrative sia particolarmente interessante. Coalizioni civiche marcatamente di sinistra guadagnano consenso sulla base di proposte chiare e e forti ma anche grazie ad una pratica che restituisce alle persone protagonismo e potere. Protagonismo e potere di scelta sui temi e sul modo con cui organizzarsi per portarli avanti. In un paese come il nostro, dove lo iato tra il numero di iscritti o aderenti alle varie formazioni politiche della sinistra e quello di chi è di sinistra ma non si riconosce in nessuna organizzazione specifica è così alto, questo aspetto della questione mi pare di primaria importanza.
Dunque proporrei di fare così questa discussione. Partiamo dalle cose concrete, dal mondo reale, dal modo in cui farlo. Il tempo è ora.
Il giovane socialista, l'avv. ETTORE GIUSEPPE MESSANA
 
 
 
L'ANPI di Palermo non ha dubbi: il vice commissario di PS di Mussomeli, trsferito notte tempo il 9 ottobre 1919 a Riesi a sedarvi una rivolta solo apparentemente contadina, in efffetti eversiva, è un fascista della prima ora.
In quel frangente là di fascismo in Sicilia neppure l'ombra. Un minimo di conoscenza storica ci rassicura. Cessato il governo Vittorio Emanuele Orlando, subentrato Nitti c'è invece aria di vago socialismo magari ufficiale, magari moderato.
E guarda caso il trentacinquenne dottore Ettore Giuseppe Tancredi Messana era di Racalmuto e prima di entrare in polizia vi faceva l'avvocato con propensioni nientemeno socialiste.
Un testo storico seppure sbrindellato e non sempre attendile ce ne dà notizia. Eugenio Napoleone Messana nel suo facondo RACALMUTO NELLA STORIA DI SICILIA, Canicattì giugno 1969, a pag, 357 ci racconta: "Fra gli intellettuali del paese che in questo periodo si affermarono meritano particolare attenzione l'avv. Giuseppe Scimè, l'avv. Salvatore Petrone e l'avv. Ettore Messana. I primi due intrapresero la carriera della magistratura e raggiunsero i posti più alti, sostituto procuratore generale e consigliere di cassazione lo Scimè, consigliere di cassazione il Petrone, il Messana scelse la pubblica sicurezza, fece tutta la carriera, partendo come si suol dire, dalla gavetta e giungendo, dopo avere subito remore dal fascismo, in quanto ex socialista, alla carica di questore, ispettore di polizia per la Sicilia, ispettore generale della Repubblica."





Il giovane avvocato socialista, sulla scia di un folcloristico, l'avv. Viciu Vella, a Racaluto vi era nato di straforo nel 1884 in un'ampia casa da arricchiti delle zolfare, prospiciente  S. Anna, nel 1884.  La sua famiglia  aveva un secolo di storia paesana alle spalle. Negli ultimi decenni del '700 quando  nel paese sciasciano era piombata fame e miseria. I preti erano costretti a fare funerali gratis: neppure i signori avevano quei cinque tarì per il cappellano della buona morte.

E non solo: i magazzini del popolo non avevano più grano; il vescovo autorizzò il celebre futuro canonico Mantione a impegnare gli iocalia pur di comprare frumento da distribuire ai poveri, da panificare  in nome del Municipio.

Grida di dolere si raccolgono ancora nel vetusto archivio parrocchiale. Un Casuccio discendente addirittura dai Doria  lacrimava morti premature di figli maschi,  malattie e indigenze. Il prevosto del tempo commiserava.

Ma l'astuto mastro Luigi ne usciva non solo indenne ma addiririttura locupletando molto e  bene col il predetto 'commercio degli zolfi', prima  amministrando a modo suo i gracili beni del subentrato principe di Naro  e soprattutto alla fine affamando  ricchi e poveri con la 'esosa tassa del macino'.

Così potè fare 'speziale' il figlio don Liddru Missana.  che potè convolare a giuste nozze con  una ormai 'donna Lucia Nabone'  di quel ramo risollevatosi dai ranghi del popolino per merito di un prete birbantello che aveva saputo sfruttare i seppellimenti del Thau a S. Anna. Lo speziale, quando giovanissimo , era testa calda. Si va  ad impelagare nei moti siciliani antiborbonici del '20.  Incauto allora ma così poté intrufolarsi bella rampante borghesia carbonara di Sicilia. Conoscenze  poi munificanti. C'erano i fratelli Amari, ma c'era anche  Francesco Crispi.  Con Donna Lucia Nalbone il dottor Calogero  fu prolifico. Ma una sola figlia  femmina: ben dotata dal padre, ebbe 'lauta dote'  si gloria lo storico di famiglia. sposa addirittura un barone: don Giuseppe Tulumello. Quella era nobiltà per modo di dire. Un prete mariolo aveva quasi strozzato i principi di S. Elia  e il feudo di Gibillini, ma non la Rocca, fu suo con il titolo nobiliare incorporato  per persona da nominare. che poi fu un turbolento nipote in eterna contesa con i borghesi Matrona tanto cari a Leonardo Sciascia.

I cinque figli maschi don Calogero Messana, li fece tutti laureare: don Luigi in medicina, Biagio, Giuseppe e Arcangelo in legge, Serafino in chimica e 'filosofia medica'.



Famiglia numerosa dunque quella degli antenati del nostro Ispettore Generale di PS E.G.T Messana, racalmutese, la quale  seppe bene infiltrarsi  nei meandri rivoluzionari dell'Ottocento Siciliano.  Lo storico di famiglia E,N. Messana  esalta in modo particolare Giuseppe Messana che nacque il 3 maggio 1816. Non sarà un caso se il nostro Questore portò come sgradito  secondo nome quello di Giuseppe.  Tale, figura in carte e delazioni dell'epoca fascista. Ma se ne parla bene e gli storici sembrano non accorgersene. Vi figura come ispettore intemerato degno di andare a fare il questore a Palermo,  ma la cosca del mafioso Mormino suterese gli sbarra la strada.

Sappiamo ciò dal più accanito detrattore del Messana, il politico di Sutera Gero Difrancesco.  Disavvertitamente scrive nel bel libro 'storie scordate': "Il senatore Mormino non pensò solo ai siciliani, ma provvide  ai bisogni di famiglia. Complice il non mai abbastanza compianto Senatore Bocchini  egli fece elevare subito un suo fratello a questore da semplice commissario e quasi non bastassero le promozioni straordinarie come un principe di sangue. gli costruì  a Palermo ove ancora risiede, una zona dell'Ovra con appannaggi  mai conosciuti. Altro  (pag. 127) fratello segretario comunale  di un piccolo comune con giochi di prestigio  a tutti noi fu fatto diventare  segretario  comunale  del Comune di Palermo liquidando il vecchio segretario comunale . Un figlio di costui deve sposare a giorni la figlia del questore di Palermo, compare del senatore Mormino, da lui inviato a Palermo non appena assunta la carica di capo di Gabinetto. Eppure quando il Mormino fu chiamato da voi  come capo di gabinetto il questore di Palermo era già stato nominato nella persona di Giuseppe Messana, funzionario  di valore sacrificato dal Mormino per dar posto al Lauricella suo fiduciario e milionario che è tuttora e rimarrà Questore di Palermo ed esponente della cricca di Mormino, separatista ed accaparratrice." (pag.128).

Che beffa per il Difrancesco pronto a sferrare un attacco micidiale e diffamatorio contro il racalmutese Messana poi cade nella trappola della disinformazione e riporta cose che mettono alla berlina l'ANPI di Palermo e il Comune di Riesi e pure il defunto Casarrubea.  intrisi di livore contro il racalmutese che credono fascista della prima ora, agente dell'OVRA e che faceva gran carriera perché protetto dalla mafia.

Questa pagina genuina, riscontrabile nell'archivio centrale di Stato  li sbeffeggia tutti. Ma non si ravvedono; credono che Messana Ettore non sia  questo Messana Giuseppe. Noi, carte della matrice alla mano, li abbiamo smentiti deridendoli.

Calogero Taverna




L'immagine può contenere: 1 persona, in piedi


mercoledì 26 aprile 2017

 i tre grandi primi cugini Messana di Racalmuto
 
 



nco Dagna Fascismo e' anche impedire al popolo di esprimersi....
Concetta Ciccarelli ..vero Gio' , l'educazione e l'istruzione dei nostri giovani (si sà) , è il "fondamento "stesso ,del nostro futuro !!!! , quindi dovremmo stare attenti ai propositi "vettori di valori " , che proniamo da adulti, perchè nel frattempo noi induciamo , sep...Altro...
Lillo Taverna spesso comunque noi 'adulti' proiettiamo sul mondo che cambia il nostro fallimento esistenziale. Vi sono i salti quantitativi che diventano salti qualitativi. Il passaggio dal millennio scorso al nuovo è uno di codesti grandi salti, è iniziata una nuo...Altro...
Giovanni Francomacaro Nella vita esistono due linee conduttrici; una, la nostra vita: sale, scende, a volte va avanti, a volte indietro e poi finisce. L'altra è quella della vita della società umana; questa è simile ad una spirale, e la distanza fra una generazione e laltra non è poi così grande come vogliamo credere. In fondo l' Ortis che travolgeun passante non è diverso da un moderno pirata della strada. Non esiste altro processo di crescita che quello individuale. Il mondo è sempre simile a se stesso.
Lillo Taverna giusto finchè si crede nella spirale dei corsi e ricorsi del buon G,B Vico, Sempreché si comprenda che il punto di ritorno sta più in alto del punto di partenza. Si è consumata una evoluzione accrescitiva e quindi migliorativa. Impecettibile per chi sta seduto su treno di quella corsa. Ma intanto tutto è cambiato. Sì. panta rei. Non per nulla sono figlio della Megalé Hellas. Calogero Taverna
spesso comunque noi 'adulti' proiettiamo sul mondo che cambia il nostro fallimento esistenziale. Vi sono i salti quantitativi che diventano salti qualitativi. Il passaggio dal millennio scorso al nuovo è uno di codesti grandi salti, è iniziata una nuova palingenesi che noi - mi dispiace - frattaglie del millennio scorso non comprendiamo, osteggiamo e contestiamo. Siamo sinceri: non abbiamo nulla da insegnare. Non son più le cattedre nè i pulpiti né le cellule ad impartire ...'lezioni di vita'. Per fortuna. Io stravecchio di 83 anni gongolo. Noi con i nostri 25 aprile, con la prossenetica memoria degli olocausti, con il fustigarci per dileggiare, con le giornate della donna, con le nostre superstizioni incolte, con la nostra doppia morale, con il nostro disfattismo, con il nostro volere fermare il mondo perché non consono al frustro nostro intelletto, abbiamo ben poco da educare, insegnare, ammonire. Le nuove generazioni per fortuna manco ci ascoltano piu, annoiate per i nostri mugugni tristi e senza futuro. Calogero Taverna

lunedì 24 aprile 2017

Il giovane socialista, l'avv. ETTORE GIUSEPPE MESSANA
L'ANPI di Palermo non ha dubbi: il vice commissario di PS di Mussomeli, trsferito notte tempo il 9 ottobre 1919 a Riesi a sedarvi una rivolta solo apparentemente contadina, in efffetti eversiva, è un fascista della prima ora.
In quel frangente là di fascismo in Sicilia neppure l'ombra. Un minimo di conoscenza storica ci rassicura. Cessato il governo Vittorio Emanuele Orlando, subentrato Nitti c'è invece aria di vago socia...lismo magari ufficiale, magari moderato.
E guarda caso il trentacinquenne dottore Ettore Giuseppe Tancredi Messana era di Racalmuto e prima di entrare inpolizia vi faceva l'avvocato con propensioni nientemeno socialiste.
Un testo storico seppure sbrindellato e non sempre attendile ce ne dà notizia. Eugenio Napoleone Messana nel suo facondo RACALMUTO NELLA STORIA DI SICILIA, Canicattì giugno 1969, a pag, 357 ci racconta: "Fra gli intellettuali del paese che in questo periodo si affermarono meritano particolare attenzione l'avv. Giuseppe Scimè, l'avv. Salvatore Petrone e l'avv. Ettore Messana. I primi due intrapresero la carriera della magistratura e raggiunsero i posti più alti, sostituto procuratore generale e consigliere di cassazione lo Scimè, consigliere di cassazione il Petrone, il Messana scelse la pubblica sicurezza, fec
e tutta la carriera, partendo come si suol dire, dalla gavetta e giungendo, dopo avere subito remore dal fascismo, in quanto ex socialista, alla carica di questore, ispettore di polizia per la Sicilia, ispettore generale della Repubblica."
Altro...

domenica 23 aprile 2017

Beatrice Cenci, la vera storia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /06 /2014 - 14:07 pm | Permalink 
- Tag usati:  
- Segnala questo articolo:
  • email
  •  
  • Facebook
  •  
  • Google
  •  
  • Twitter

1/ CENCI, Beatrice, di Luigi Caiani (Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani)

Riprendiamo dal sito del Dizionario Biografico degli Italiani Treccani - Volume 23 (1979) la voce CENCI, Beatrice scritta da Luigi Caiani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/6/2014)
Beatrice Cenci (anche se non è certo che sia il suo ritratto),
attribuito a Guido Reni
CENCI, Beatrice. - Nacque a Roma il 6 febbr. 1577 da Francesco ed Ersilia Santacroce.
Francesco era uno degli uomini più ricchi di Roma, avendo ereditato dal padre Cristoforo un patrimonio valutato oltre 400.000 scudi che questi aveva accumulato ricorrendo a diversi mezzi illeciti, dall'usura alle malversazioni, soprattutto nel periodo in cui aveva ricoperto la carica di tesoriere generale della Camera apostolica, Per sanare gli illeciti paterni Francesco dovette sborsare in due riprese oltre 60.000 scudi. Anch'egli ebbe molta cura del patrimonio, dedicandosi soprattutto ad importanti acquisti fondiari. Ma proprio con lui la fortuna avita cominciò a sgretolarsi a causa delle multe ingenti che dovette pagare nelle numerose occasioni in cui il suo carattere violento e sregolato lo fece finire nelle mani della giustizia.
La C. trascorse l'infanzia in famiglia, dove dominava il carattere volgare e violento del padre, uomo tirannico, avaro e manesco, che finì per suscitare contro di sé l'odio dei figli, fino al parricidio. Nel giugno del 1584, poco dopo la morte della madre, il padre la mise come educanda nel monastero della S. Croce a Montecitorio, insieme alla sorella maggiore Antonina. Era un educandato modesto, dove le Cenci erano le uniche nobili. Vi rimasero otto anni, fino al settembre del 1592, e furono per la C. i soli anni tranquilli. Quando tornò a casa, infatti, trovò la famiglia in piena crisi.
I tre figli più grandi, Giacomo, Cristoforo e Rocco, erano in rotta col padre, soprattutto per motivi di interesse: egli negava loro il denaro necessario per mantenersi, ed essi facevano debiti e lo derubavano; gli intentarono anche causa per ottenere gli alimenti, e la vinsero. Il contrasto si acuì nel 1594, quando il padre ebbe la sua più brutta avventura giudiziaria, un processo con la grave e infamante imputazione di sodomia. Stette in carcere solo tre mesi, ma per ottenere l'estinzione del procedimento dovette pagare l'enorme somma di 100.000 scudi. I tre figli approfittarono dell'occasione per chiedere a Clemente VIII di separare definitivamente il padre dalla famiglia prima che la mandasse in rovina, e di dare quindi a tutti i figli una sistemazione adeguata. In effetti il papa assegnò loro le rendite di alcune terre paterne, e fu probabilmente per suo interessamento che alla fine di quello stesso anno Antonina si sposò. Dal canto suo il padre accusò i tre di volerlo uccidere: dall'inchiesta emersero soprattutto le responsabilità di Giacomo, ma questi riuscì a trovare testimoni a suo favore, e fu prosciolto. Il padre lo accusò ancora di aver subornato testimoni contro di lui durante il processo per sodomia, ma anche questa querela finì nel nulla.
Questi ripetuti smacchi, il vedersi sfuggire il controllo sulla famiglia, il costante timore di essere ucciso diedero un duro colpo al morale di Francesco Cenci, che cominciò a pensare di lasciare definitivamente Roma. Intanto, dopo la scarcerazione, allontanò da sé i due figli più piccoli. Bernardo e Paolo, gli unici maschi rimasti in casa, mettendoli "a dozzina" presso un prete. Un'altra sua preoccupazione era che anche la C., come Antonina, si sposasse, perché la dote avrebbe ulteriormente salassato il suo già dissestato patrimonio. Per impedire questo, nell'aprile del 1595 rinchiuse la C. e la seconda moglie, Lucrezia Petroni, nella rocca di Petrella Salto, un piccolo paese tra Rieti e Avezzano, a due giorni di viaggio da Roma, nel territorio del Regno di Napoli.
Dopo aver subito negli ultimi tre anni le vicende familiari, la C. si trovò così sacrificata all'egoismo del padre, isolata in un ambiente estraneo, in compagnia della matrigna, una donna debole e scialba, e di qualche servitore. La loro vita, già assai monotona e triste, divenne più dura l'anno seguente, quando il padre, temendo che potessero fuggire, tornò alla rocca e le segregò in un appartamento del quale fece sprangare porte e finestre, trasformandolo in una vera e propria prigione: il cibo veniva passato alle due donne attraverso uno sportellino. Dopo qualche tempo esse riuscirono a eludere la sorveglianza del guardiano, ma la loro sorte non migliorò che di poco. Esasperate, presero a spedire lettere ai parenti a Roma invocando aiuto: una lettera della C. a Giacomo, nella quale lo scongiurava di trovarle marito o almeno di metterla in un monastero, cadde nelle mani del padre, nel dicembre del 1597. Tornato subito alla rocca, egli picchiò selvaggiamente la figlia, e decise di stabilirvisi, per tenere meglio sotto controllo le due donne. Richiamò a sé anche Bernardo e Paolo, ma dopo qualche tempo essi riuscirono a fuggire a Roma.
La C. non aveva certo un carattere passivo, e non poteva sopportare senza reagire quella situazione. Era spaventata e disgustata dalla brutalità e dal disprezzo con cui il padre la trattava, obbligandola anche ad accudire alle sue pulizie personali, ossessionata dalla sua continua presenza nello spazio chiuso dalle mura della rocca. E soprattutto a quel punto si rendeva conto di essere in sua completa balìa, e di non poter più sperare in alcun aiuto dall'esterno. La decisione di ucciderlo fu così non solo l'espressione del suo odio, ma anche l'unica via per riacquistare la libertà. Fra le violenze paterne non sembra ci sia stato anche lo stupro, del quale molto si è parlato. Un tentativo non si può certo escludere, visto che la violenza sessuale di Francesco non si fermava davanti ai congiunti: pochi anni prima infatti aveva tentato di sodomizzare un figliastro. Ma è da notare che né Lucrezia né la C., nelle confessioni rese al processo, fecero mai accenno a un fatto del genere, che sarebbe stato un'importante attenuante. Il primo a parlarne fu il loro difensore, Prospero Farinacci, che sperò così di salvare la C. dal patibolo. Due serve che chiamò a testimoniare in proposito riferirono però circostanze poco convincenti, e lo stesso Farinacci, commentando in seguito questo processo nel suo Responsorum criminalium liber primus, riconobbe che le prove erano molto fragili.
La C. attuò il suo proposito con molta fermezza, superando continue difficoltà, aiutata solo dall'ex castellano, Olimpio Calvetti, che fu probabilmente anche suo amante. Il primo progetto fu di far uccidere il padre dai banditi della zona, ma le trattative con costoro non andarono in porto. Allora la C. pensò di avvelenarlo, e nell'agosto del 1598 mandò a Roma Olimpio, per mettere Giacomo al corrente dei suoi piani (Cristoforo e Rocco nel frattempo erano morti): Giacomo assentì e diede a Olimpio del veleno. Ma il padre, insospettito, obbligava la C. ad assaggiare ogni cibo e bevanda. Allora ella si risolse a farlo uccidere nel sonno. Al momento decisivo sia Lucrezia sia Olimpio e il suo complice, Marzio Catalano, esitarono, e fu solo la grande determinazione della C. a trascinarli. Francesco Cenci venne così ucciso a martellate dai due sicari all'alba del 9 settembre: per simulare una disgrazia, su proposta della C. venne sfondato il pavimento di un balcone di legno su cui dava la sua stanza, ed il corpo fatto cadere nella macchia sottostante.
Il 12 giunsero alla rocca Giacomo e Bernardo, e il giorno dopo tutti ripartirono per Roma, senza neppur far celebrare le esequie del padre. L'illusione dell'impunità durò molto poco. La popolazione del paese era convinta che si era trattato di un delitto, la voce giunse a Roma e agli inizi di novembre il Fisco aprì un'inchiesta: i Cenci sostennero tutti la versione dell'incidente, ma vennero messi agli arresti domiciliari in attesa di ulteriori accertamenti. Intanto sul luogo del delitto si svolgevano due inchieste, una ordinata da Marzio Colonna, proprietario della rocca, e l'altra dal viceré di Napoli: vennero facilmente rinvenute le prove del delitto, e a Napoli fu emesso un mandato di cattura contro i quattro Cenci (Paolo era morto di febbre agli inizi di dicembre), i due sicari e le loro mogli. Olimpio si trovava allora a Roma nella casa dei Cenci. Giacomo decise di sbarazzarsene, preoccupato anche dal suo comportamento imprudente, e agli inizi di gennaio lo convinse a partire con un suo fido che aveva l'incarico di ucciderlo. Marzio invece venne catturato il 12 gennaio in un paese vicino a Petrella Salto, dove si era rifugiato. Dalle sue confessioni, rese a Roma nel carcere di Tor di Nona, dove poco dopo morì, emersero tutti i particolari del delitto. I Cenci vennero arrestati, e sottoposti a numerosi interrogatori e confronti dal luogotenente criminale del Vicario, Ulisse Moscato: tutti rimasero saldi nella primitiva versione; soprattutto la C. tenne testa al magistrato, facendo coraggio anche all'esitante Lucrezia. Il Moscato allora estese la rete degli interrogatori, finché non ebbe indizi sufficienti per mettere i Cenci alla tortura. Agli inizi di agosto vennero successivamente sottoposti al tormento della corda Giacomo, Lucrezia e la C., e tutti cedettero immediatamente. Giacomo e Lucrezia addossarono la maggior responsabilità alla C., mentre questa, più lucidamente, disse che l'iniziativa era stata tutta di Olimpio, ormai morto.
Dopo queste confessioni i Cenci poterono scegliersi i difensori, che furono due fra i più celebri avvocati di Roma, Prospero Farinacci e Pianca Coronato de' Coronati. Nelle loro arringhe, presentate per iscritto al papa agli inizi di settembre, sostennero entrambi che la principale responsabile del delitto era la C., ma che non doveva essere condannata a morte perché il suo gesto era stato motivato dallo stupro paterno. Quanto agli altri, neppure loro meritavano la morte, perché avevano semplicemente acconsentito a quanto la C. aveva già deciso. A parte ogni valutazione di questa linea di difesa, considerata fiacca e priva di pathos da alcuni studiosi, il momento era particolarmente sfavorevole agli imputati, perché il ripetersi fra la nobiltà romana di omicidi familiari, l'ultimo dei quali era avvenuto proprio il 5 settembre, mentre il papa stava esaminando le difese, spingeva il papa ad una condanna esemplare. Giacomo, Lucrezia e Beatrice vennero condannati a morte, Bernardo, per la sua giovane età e il suo ruolo secondario, alla galera a vita, dopo aver assistito all'esecuzione dei suoi; i loro beni vennero confiscati.
Il processo fu seguito con molto interesse dall'opinione pubblica, che manifestò grande simpatia per gli imputati. Soprattutto la C. colpì per la sua bellezza e la sua giovinezza, e subito nacque intorno a lei la leggenda, che ne fece un'eroina: si disse anche che aveva sopportato la durissima tortura della veglia, cedendo solo alla fine.
All'esecuzione, avvenuta l'11 sett. 1599, assistette un'enorme folla commossa. La C. affrontò coraggiosamente la mannaia, dopo Lucrezia, e gli Avvisi la definirono "ardita", "salda", "virile".
Una grande folla rese omaggio al suo corpo, che restò esposto fino a sera accanto al palco, e la accompagnò poi a S. Pietro in Montorio, dove venne seppellita. Sulla sua lapide non venne posta alcuna iscrizione, come era d'uso per i giustiziati. I suoi. resti vennero dispersi nel 1798, durante l'occupazione francese, quando le tombe vennero violate per recuperare il piombo delle bare.
Il testamento della C., che conteneva soprattutto numerosi lasciti a chiese e monasteri, non ebbe naturalmente effetto a causa della confisca dei beni. Un lascito particolare a un "povero fanciullo pupillo", affidato a una sua amica, ha fatto pensare a qualche studioso che si trattasse di un figlio che la C. aveva avuto da Olimpio, ma l'ipotesi non sembra molto consistente.
Durante il processo l'interesse dell'opinione pubblica fu colpito non soltanto dalle figure dei parricidi, ma anche dalla sorte del loro ancora cospicuo patrimonio. Si accusò Clemente VIII di avere mire su di esso, e ciò che accadde in seguito confermò questa convinzione. Infatti subito dopo l'esecuzione la moglie di Giacomo, in gravi difficoltà finanziarie, presentò ricorso alla Sacra Rota contro la confisca dei beni, perché legati da fidecommisso. Nella causa intervennero anche Bernardo e i due cugini Baldassare e Ludovico Cenci, che li reclamavano, ciascuno per proprio conto, in base al fatto che Giacomo era stato diseredato. Mentre la causa era ancora in corso, i beni vennero messi all'asta, e attraverso vari maneggi la parte più cospicua di essi, la tenuta di Torrenova, di quasi mille rubbia di superficie, alle porte della città, fu acquistata da Gian Francesco Aldobrandini, nipote del papa, per una cifra assai inferiore al suo valore. Lo scandalo fu clamoroso, e il papa, per sedarlo, fu costretto a concedere alla moglie di Giacomo la restituzione di quanto restava, dietro una composizione però di 80.000 scudi. Per il pagamento di questa ingente somma venne eretto il Monte Cenci. La famiglia continuava però a trovarsi in serie difficoltà, perché quasi tutte le rendite delle proprietà venivano assorbite dal pagamento degli interessi dei luoghi di Monte. Così nel 1615 i Cenci chiesero al papa di liberare alcuni beni dal vincolo fidecommissario per poterli vendere ed estinguere così il Monte. Finì in tal modo il grosso patrimonio.
Un presunto ritratto della C., attribuito a Guido Reni, è conservato a Roma nella Galleria nazionale d'arte antica: ma sono improbabili sia l'identificazione del personaggio sia quella del pittore. Nel sec. XIX la leggenda della C. conobbe una grande fortuna, e fu soggetto di opere pittoriche e scultoree assai mediocri (un elenco in Ricci, II, pp. 280 s.). Molto più importanti sono le numerose opere teatrali e di prosa, fra cui le tragedie The Cenci, di P. B. Shelley (1819), Beatryks Cenci di J.Słowacki (1839), Beatrice Cenci di G. B. Niccolini (1844), e il romanzo Beatrice Cenci di Francesco Domenico Guerrazzi (1853). In tutte queste opere, pur diverse tra loro per ispirazione, la C. appare come l'eroina che sola, in mezzo alla generale vigliaccheria di amici e parenti, osa tener testa al padre, vendica l'oltraggio subito e affronta con fermezza la sua sorte. Il tema è stato ripreso nel Novecento da Antonin Artaud nella tragedia Les Cenci, del 1935. Essa è permeata dalla concezione esistenzialista di un male che coinvolge vittime e carnefici, per cui la C. si sente contaminata e non riscattata dal parricidio. Ultima in ordine di tempo, per le rielaborazioni letterarie di questa vicenda, è la Beatrice Cenci di G. Drudi (Torino 1979).
Fonti e Bibl.: Tutte le fonti relative a questa vicenda sono rintracciate ed utilizzate. Gli studi storici più importanti sono: A. Bertolotti, Francesco Cenci e la sua famiglia, Firenze 1879; I. Rinieri, B. C. secondo i costituti del suo processo, Siena 1909; C. Ricci, B. C., Milano 1923; quest'ultimo contiene un repertorio critico delle fonti e una completa bibliografia. Fra gli scritti pubbl. dopo lo studio del Ricci sono da ricordare: G. Rosadi, I documenti su B. C. e il libro di C. Ricci, in Nuova Antologia, 1° marzo 1924, pp. 3-17; [I. Rinieri], Ancora di B. C., in La Civiltà cattolica, LXXV (1924), I, pp. 34-41; Id., B. C. Gli ultimi rantoli di una leggenda, ibid., LXXVI(1925), III, pp. 311-23; Id., L'ultima confess. di B. C., ibid., pp. 500-10; O. Montenovesi, B. C. davanti alla giustizia dei suoi tempi e alla storia, Roma 1928; L. Guglielmo. D'un presunto attentato all'onore di B. C. compiuto dal padre Francesco Cenci, Lecce 1933; E. Martinetti Di Valentano, Il Parricidio Cenci, Roma 1933; C. Fraschetti, I Cenci …, Roma 1933, ad Ind.; L. von Pastor, Storia dei papi, XI,Roma 1958, pp. 626-629.

2/ Cènci, Beatrice (dal sito Treccani.it Enciclopedie on line)

Riprendiamo dal sito dal sito Treccani.it Enciclopedie on line la voce CENCI, Beatrice. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (15/6/2014)
Cènci, Beatrice. - Nobile romana (1577-1599); protagonista della tetra vicenda che provocò la rovina della sua famiglia; figlia di Francesco (1549-1598), uomo dissoluto e violento, fu confinata con la matrigna Lucrezia Petroni nella rocca di Petrella Salto, nel Cicolano (prov. di Rieti), dove divenne l'amante di Olimpio Calvetti. Con questo e con suo fratello Giacomo si sbarazzò, per riavere la libertà, del padre, facendolo precipitare da un balcone. Il processo che seguì, voluto da Clemente VIII, si concluse con una condanna che voleva colpire, con la sua violenza, nei responsabili dell'ultimo delitto tutte le malefatte dei Cenci: Beatrice fu decapitata davanti a ponte S. Angelo, insieme al fratello Giacomo e alla matrigna Lucrezia. La sua figura, idealizzata dal popolo come una vittima innocente degli orrori della sua casa (fu detta la "vergine romana"), fu oggetto di una letteratura vastissima: si ricordano i racconti dello Stendhal e di Dumas padre, le tragedie di Shelley, di Słowacki e di G. B. Niccolini, i romanzi dell'Ademollo e del Guerrazzi, i drammi di A. Artaud e A. Moravia.

3/ Gli ultimi momenti della vita di Beatrice Cenci (da Wikipedia)

Riprendiamo dalla voce Beatrice Cenci di Wikipedia (al 15/6/2014) la parte relativa agli ultimi momenti di vita di Beatrice Cenci, come risulta dall’autore della “Romana storia del secolo XVI", Roma, 1849, che riprende a sua volta i dati da fonti precedenti non precisate dalla voce stessa di Wikipedia.
Il Centro culturale Gli scritti (15/6/2014)
«Vennero frattanto altre soldatesche dal lato di Castel S. Angiolo, ed aumentata la forza armata intorno al patibolo, si proseguì il corso della giustizia, quando si vide un poco calmato il tumulto della folla. Beatrice genuflessa nella cappella era talmente assorta nella sua preghiera che non fece attenzione al rumore ed alle grida; soltanto si riscosse quando lo stendardo entrò nella cappella per precederla al supplizio. Si alzò, e con la vivacità di una sorpresa domandò: — La mia signora madre è veramente morta? — Le fu risposto affermativamente, ed ella gettatasi ai piedi del Crocifisso pregò con fervore per l'anima di lei. Poi parlò ad alta voce e lunga pezza col Crocifisso dicendo cose troppo non connesse, e finì con esclamare: — Signore tu mi chiami ed io di buona voglia ti seguo, perché so di meritare la tua misericordia.
Si accostò al fratello, lo baciò in fronte, e con un sorriso d'amore gli disse: — Non ti accorare per me, saremo felici in cielo, poiché ti ho perdonato. Giacomo svenne. La sorella, volgendosi agli sgherri: - andiamo - disse, e franca si avanzava alla porta, ma il carnefice le si fece avanti con una corda, e pareva che temesse di avvolgere con essa quel corpo. [...] Appena Lo stendardo uscì dalla cappella, e che la meschina accompagnata da due cappuccini arrivò al pié del palco, un subito silenzio fece credere deserto quel luogo per lo avanti sì rumoroso. Tutti volevano sentire se articolava qualche parola, e con gli occhi a lei rivolti, e con bocche aperte pareva che pendesse dalle di lei labbra la loro esistenza. Beatrice al pie' del palco, baciò il Crocifisso, fu benedetta dal frate; e lasciate le pianelle, salita destramente la scala, lentissima arrivò al fatale ceppo, niuno si avvide della pronta mossa che gli fece scavalcare la panca che aveva cagionato tanto ribrezzo alla Petroni; si collocò perfettamente da se inibendo con uno sguardo fiero al carnefice di toccarla per levarle il velo dal collo, che da se stessa gettò sul tavolato. Ad alta voce invocava Gesù e Maria attendendo il colpo fatale, passò però in questa orribile situazione alcuni istanti, perché il carnefice intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s'agitò con violenza. Il misero Bernardo Cenci costretto ad esser testimone del supplizio di sua sorella cadde svenuto, e per lunga mezz'ora non poté essere richiamato ai sensi. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda [...]».
Visto che il dibattito continua,lo ripropongo anche se di qualche tempo fa.
Giuro che certi dibattiti proprio non li comprendo. Chi è fuoriuscito dal PD perché dovrebbe andare a votare alle primarie pur avendo la tessera? Per dispetto ad…
ombrettabuzzi.it
Mi piace
Commenta
Commenti
Lillo Taverna Io di certo non andrò a votare, sarebbe un regalo al 'rottamato' rottamatore Renzi. Ma capisco quelli che pur in cuor loro già 'fuorusciti' vi andranno. Possono nutrire l'iintima speranzella che vi sia un ravvedimento operoso e si torni uniti. Credo che intanto vi sia un prudente attendismi: andare apparentemente uniti alle elezioni comunali per i limitare i danni del renzismo. Poco male se dopo Bersani torna ad essere il nostro 'capo' e portarci alle elezioni nazionali con questo Italicum evirato del premio di maggioranza. Proporzionale pura e dopo si vedrà. Un governo in qualche modo si abbozzerà. E son sicuro che Renzi non arriva al 20% e Bersani, sicuramente con Pisapia, si porta a casa almeno il 15%. Le gufesche previsioni di Mentana si squaglieranno come neve al sole. Bersani, ritorni a guidarci!