sabato 27 ottobre 2018

LEGGO E CON SORPRESA APPRENDO DI QUESTA INTRESSANTE TESTIMONIANZA DELLA NOSTRA CASALVECCHIO. NON NE HO MAI SAPUTO ALCUNCHE'. CHI SA CI RIGGAGLI MAGARI CON DOCUMENTI FOTOGRAFICI.
Come anticipato ci sono i tentativi di indagare anche come la struttura degli addetti al controllo e la gestione di tutte le attività estrattive. Si è infatti provato che su quindici siti che restituiscono esemplari di tegulae sulphuris , che è il caso su cui si fonda questa indagine, in dodici è docu...mentata la presenza di strutture abitative di un certo pregio: un Favara scavi e ricognizioni hanno permesso di ubicare una grande villa rustica con presenza di mosaici, strutture idriche ben organizzate, impianto termale. Un commento sull'esistenza, lungo il tracciato del moderno diverticolo che conduce dalla SS 189 al centro urbano, in c.da Puzzu Rosi, di un pavimento in opus spicatum mentre i reperti raccolti nel corso di successivi sondaggio
lasciano pensare un sacco bendi materiale di pregio e di importazione. Altrettanto si può dire per i siti palmesi di Cignana ePunta Bianca (vedi un sito, come crediamo, sono da attribuire i frammenti di tegolerinvenuti negli anni passati 9) e per Racalmuto, colomba nel sito di c.da Casalvecchio (UT 1) sono tutt'oggi visibili due vasche circolari rivestite in cocciopesto e malta idraulica collegate ad una conduttura mentre sul terreno si rinvengono i tipici mattoncini che, disposti di taglio, dovevano essere un pavimento in opus spicatum.
Nei restanti tre (Chirisi / Cozzo Tondo, Lucia e MonteGrande) non si ha, invece, altra traccia di insediamento e di frequentazione se non, appunto, un gran
PANTANEDDRI (Racalmuto)
Vedete quel Tumulo sulla parte bassa a destra della foto? E' doppiamente interessante: un inizio di tomba che credo a tholos sulla fiancata, un 'palmento' sull'apice. La tomba a tholos iniziata e non conclusa attorno alla fine del secondo millennio a. C. (secondo mie congetture) va studiata anche con scavi stratiorafici per l'importanza storica che riveste circa gli insediamenti sicani nella nostra Racalmuto. Il Palmento databile attorno al XVI secolo dopo Cristo testimonia che prima della devastazione dovuta allo sfruttamento solfifero del XIX secolo lì nelle desolate terre dette Pantaneddri erano ubertosi la i vigneti. Tutto abbandonato anche se costerebbe ben poco municipalizzare quella landa ora abbandonata e farvi ricerche archeologiche di interesse ben oltre la microstoria che tanto mi appassiona.
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lunedì 22 ottobre 2018

Quel che rinvenne (non scoprì caro prof. Carbone) mio fratello l'ing. Angelo Taverna è questo libricino che porta il n. 31 come foglio finale.
E' un esemplare unico di stretta proprietà di mia cognata che non desidera farne diffusione alcuna- Quando assessore alla cultura, Totò Picone ebbe tra le mani le fotocopie che avevo date a padre Mattina. Si tratta delle Coroncine in numero di 23, da pag. 25 a pag. 31, e ne feve una bella pubblicazione

La foto della copertina che qui masterizziamo è pressoché illeggibile. Ne facciamo la trascrizione a dimostrazione dell'autenticità della fonte.
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SAGRA
NOVELLA E CORONELLA
DELLE SETTE ALLEGREZZE
IN ONORE
DELLA NOSTRA SIGNORA
M A R I A
V E R G I N E
S O T T O
Il prodigiosissimo titolo del Monte, Avvocata
e Protettrice dell'Alma Fedelissima di
Racalmuto
C O M P O S T E
DAL P. F. EMMANUELLO MARIA
C A T A L A N O T T O
Agostiniano della Congregazione di Sicilia, e
dedicate all'alto incomparabile merito
D E L L A S I G N O R A
D. RAFFAELLA MARIA
G A E T A N I, E B U G L I O
Duchessa Gaetani, e Contessa di Racalmuto ec. ec.
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IN PALERMO MDCCLXIV.
Nella Stamperia di Giuseppe Gramignani
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Con Licenza de' Superiori-
Il testo del Catalanotto era ben presente al Caruselli che dichiarando spregevoli i versi dell'Agostiniano pensò bene stravolgerne lingua e contenuto. Invero, secondo il padre Morreale, la romanzata versione della venuta della Madonna a Racalmuto precede il Caruselli. Già mons. Lo Jacono aveva elaborato ed approvato la "lezione VI dell'ufficio liturgico in onore della Madonna del Monte"- Il Pitrè parla di questa faccenda mariana racalmutese e ci precisa che "nel 1854 un sacerdote di Lucca di Sicilia P. Bonaventura Caruselli minore osservante , dolente che la sacra azione [quella del Catalanotto, presumiamo] prendesse forma di un baccanale, volle scrivere e pubblicare un dramma da sostituirsi annualmente a quello scomposto spettacolo- 'Sin da tempo immemorabile, egli dice, usavano i suoi abitanti nella festa della Madonna recitare in pubblico alcuni così detti versi, allusivi della venuta miracolosa di Maria del Monte. Or essendo la cerimonia poco imponente, perché per essere la composizione malissimamente costrutta, s'eseguiva da gente volgare. Né potendosi togliere simile costume, ho voluto renderlo più dignitoso con un componimento più regolare' "
Il Pitrè comunque alla fine trancia un giudizio che è una stroncatura. "E' opera pocomeno che mediocre".
Sarà per questo che duante la sindacatura di Eugenio Napoleone Messana vien fuori una successiva rielaborazione con l'invenzione di personaggi improbabili dai nomi addirittura meneghini.
Il Pitrè incontrò il Caruselli; ci racconta: "ho conosciuto il Caruselli negli ultimi mesi della sua vita, malato di cuore. Egli avrebbe potuto fornirmi notizie dello spettacolo antico di Racalmuto, ma ne disprezzava l'apparato e la poesia e per il suo male parlava a fatica."
Ed ecco la straordinaria importanza del rinvenimento da parte di mio fratello, dell'unica copia di quel dramma sacro. Ne conosciamo l'autore, il padre agostiniano P. F. Emmanuello Maria Catalanotto: i disprezzati versi da parte del francescano Caruselli hanno l'afrore del nostro bel dialetto (a parte certe intelocuzioni non nostrane) e tra il pessimo dramma sacro del Caruselli in estranea lingua toscana preferiamo questo siculo cantalenare del Catalanotto. Questi è bene ammanigliato con i Caetani e Buglio che per un secolo sia pure con l'inganno di una serva (Paola Macaluso) furono i nostri riconosciuti Conti.
Che dire della versione che con tanto dispendio di soldi a carico di questo dissanguato Comune, si recita sul palcoscenico della Piazzetta la seconda domenica di Luglio? Sarebbe meglio tornare alla versione Catalanotto che almeno ha qualche effluvio vetusto e ci risparmieremmo versi dissennati in malaccorta lingua, diseducativi per giunta.
Calogero Taverna

sabato 20 ottobre 2018

Gaetano Augello a REPUBBLICA DEL SERENISSIMO PARNASO CANICATTINESE
Pillole di storia --- IL "CASO FICARRA" nell'opera di Leonardo Sciascia "Dalle parti degli infedeli". -----------------------------------------------------N... O T A. B E N E. --------------------------------Su richiesta di alcuni amici pubblico su questo sito un mio articolo dell'anno 2009 -----------------------------------------------------La concomitanza di due ricorrenze, i cinquant’anni dalla morte del vescovo Angelo Ficarra (10 luglio 1885 – Canicatti’ – 1° giugno 1959) ed i trenta dalla pubblicazione dell’opera "Dalle parti degli infedeli" di Leonardo Sciascia (ottobre 1979) hanno suscitato nuovo interesse e attenzione critica da parte degli studiosi su un caso che potremmo definire politico-religioso. --------------------------------------------Il 2 agosto 1957, mentre si trovava a Canicatti’ per il consueto periodo di ferie estive, il vescovo di Patti Angelo Ficarra sul "Giornale di Sicilia" di Palermo lesse questa notizia: “Il Santo Padre si è benignamente degnato di accogliere le dimissioni presentate da Sua Eccellenza Reverendissima monsignor Angelo Ficarra da vescovo di Patti e lo ha promosso al contempo alla sede titolare arcivescovile di Leontopoli di Augustamnica” -----------------------------------Oltre che l’interessato, che non era stato preventivamente informato di quanto stava per accadergli, la notizia colpì l’opinione pubblica sia perché allora i vescovi restavano sulla loro cattedra fino alla morte ed i rari casi di “destituzione” erano determinati da gravi motivi, sia perché il provvedimento colpiva un vescovo di profonda cultura e grande spiritualità. ---------------------------Angelo Ficarra soffrì profondamente nel suo intimo per quanto accaduto ma giammai se ne dolse pubblicamente; ad una vecchietta che gli chiese dove fossero andati a finire mitra e pastorale rispose con assoluta serenità, limitandosi ad una considerazione propria di un uomo di grande fede: “Anche da Canicattì si può andare in paradiso”. Parafrasava in tal modo una massima che il suo S. Girolamo aveva rivolto al presbitero S. Paolino: "Et de Hierosolymis et de Britannia aequaliter patet aula coelestis". Canicattì nell’immaginario collettivo nazionale era diventata, a causa del suo nome davvero originale, l’estrema periferia dell’orbe terrestre, un po’ come era considerata la Britannia nel mondo classico. ------------------------------------------------------Dopo la morte del presule la vicenda, come è naturale, sarebbe stata ben presto dimenticata dai più se Leonardo Sciascia, dopo aver ricevuto da parte dei nipoti del vescovo il carteggio relativo alla dolorosa vicenda, non avesse deciso di scrivere sull’argomento una delle sue opere più significative. ----------------
Il grande scrittore di Racalmuto non intervenne per "vis polemica" contro la Chiesa o per piaggeria nei riguardi dei familiari del vescovo: la sua fu una decisione forte e immediata, determinata dall’assonanza riscontrata tra la sua visione laica del mondo e la spiritualità moderna e aperta del vescovo canicattinese. Sciascia evidenziò con forza i motivi alla base della sua scelta a conclusione dell’opera, scritta di getto nella sua residenza estiva di contrada Noce tra il 2 ed il 31 agosto 1979: “… non avrei mai creduto che ad un certo punto della mia vita mi sarei trovato a raccontare la storia di un vescovo (siciliano e titolare di una diocesi in Sicilia) apologeticamente ed "ex abundantia cordis": senza distacco, senza ironia, senza avversione. Ma sbaglierebbe chi, leggendo questo piccolo libro, lo giudicasse risultato di una mia evoluzione o involuzione (secondo la parte da cui lo si giudica). Si tratta semplicemente di questo: che l’avere per tanti anni e in tanti libri inseguito i preti “cattivi” inevitabilmente mi ha portato a imbattermi in un prete “buono”. (Leonardo Sciascia, Dalle parti degli infedeli, Palermo, Sellerio, 1979, pp. 77-78). -----------------
Sciascia trovò delle assonanze tra le sue "Feste religiose in Sicilia" e le "Meditazioni vagabonde" del Ficarra. Nella prima opera si sosteneva la tesi di una sostanziale refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana; il libro, diceva Sciascia, non fu gradito ai più: “Per quel che cominciava a correre e poi corse non fu apprezzato a sinistra e si ebbe il disdegno della destra”. (Leonardo Sciascia, ibidem, p. 78). "Meditazioni vagabonde" fu il titolo dato dal Ficarra a quaranta articoli pubblicati (dal n. 144 del 7 febbraio 1909 al n. 202 del 30 giugno 1914) su "Il Lavoratore", un quindicinale fondato da don Nicolò Licata, arciprete di Ribera e protagonista con Luigi Sturzo e Michele Sclafani del movimento politico-sociale cattolico siciliano, precursore del Partito Popolare Italiano. Anche l’opera del vescovo non fu apprezzata negli ambienti curiali al punto che poté essere pubblicata soltanto postuma. (Angelo Ficarra, Le devozioni materiali: Psicologia popolare e vita religiosa in Italia, Palermo, Edizioni La Zisa, 1990). --------------------
Nei quaranta articoli il Ficarra, allora vicario cooperatore dell’arciprete Licata, condannava con forza le modalità paganeggianti di molte feste siciliane, vere e proprie continuazioni delle antiche feste dionisiache rurali: il feticismo praticato verso talune immagini di santi; lo spagnolismo di tante cerimonie e tradizioni e l’uso di musiche, “marce ed ariette più o meno lascive ed invereconde" (Il Lavoratore, Anno VIII, Ribera, 7 novembre 1909); lo strapotere delle confraternite laicali, “vero flagello di certi paesi e di certe chiese” (Il Lavoratore, Anno VIII, Sciacca, 31 agosto 1909), interessate soltanto a conservare privilegi e prebende. Il Ficarra parlava di “materialismo religioso” e di “materializzazione dell’idea religiosa” (Il Lavoratore, Anno IX, Ribera, 9 gennaio 1910) e sosteneva la tesi di un popolo siciliano tutt’altro che cristiano: “Quante scorie e quante miserie in questa povera anima siciliana, nei cui strati più profondi freme e si agita tuttora il greco idolatra e il romano superstizioso, il musulmano sensuale e lo spagnolo sfarzoso” (Il Lavoratore, Anno VIII, Ribera, 22 ottobre 1909). “La vita religiosa del nostro popolo” aggiungeva “è ammalata, profondamente inquinata” (Il Lavoratore, Anno VIII, Sciacca, 2 maggio 1909). ------------------------------------------------Queste considerazioni anticipatrici di una concezione della religiosità davvero moderna ed alcune pubbliche prese di posizione che il Ficarra adottò in anni successivi determinarono in Leonardo Sciascia un sentimento di profondo rispetto ed oserei dire una qualche affinità spirituale. In due occasioni il vescovo evidenziò in maniera particolare la sua spiritualità al di sopra e al di fuori di particolari contingenze politiche. Nell’ottobre del 1938 a Librizzi, piccolo centro collinare dell’entroterra pattese, si svolse una vicenda che interessò il vertice nazionale del Partito Fascista e perfino la Segreteria di Stato del Vaticano guidata allora dal cardinale Eugenio Pacelli che dopo pochi mesi sarebbe diventato papa Pio XII. Le autorità fasciste locali volevano profittare della festa della patrona, la Madonna della Catena, per proiettare nella pubblica piazza due filmati apologetici del regime. Angelo Ficarra, attuando peraltro una precisa disposizione adottata nel 1936 dall’Episcopato Siculo, sospese la festa per impedire la proiezione. ---------
Nell’estate del 1950 il Ficarra, unico tra i vescovi della Sicilia, aderì all’Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento Partigiani per la Pace e sottoscritto da illustri personalità di ogni parte del mondo. Ma, sia nel primo che nel secondo caso, sarebbe sbagliato interpretare le scelte del vescovo come scelte politiche poiché si trattava di decisioni esclusivamente e squisitamente religiose. ----------------------------------------------Leonardo Sciascia in "Dalle parti degli infedeli" analizzava i fatti che avrebbero determinato da parte del Vaticano la destituzione in contumacia del vescovo. Lo scrittore, nell’esaminare il carteggio tra la Santa Sede e il Ficarra, individuava come fattore scatenante e decisivo alla base delle decisioni assunte dalla curia romana e per essa dal carmelitano scalzo cardinale Adeodato Giovanni Piazza, potente prefetto della Sacra Congregazione Concistoriale (oggi Congregazione per i Vescovi), il mancato appoggio alla Democrazia Cristiana in occasione delle elezioni comunali di Patti del 20 ottobre 1946 e del 3 aprile 1949 ed in quelle politiche del 18 aprile 1948. ----------------------------------------------------
Nelle prime elezioni amministrative dopo la caduta del fascismo a Patti risultarono eletti 24 consiglieri socialcomunisti e 6 liberali e del movimento dell’Uomo Qualunque: nessun seggio andò alla Democrazia Cristiana. Nel 1949 invece i 24 seggi della maggioranza consiliare andarono alla cosiddetta Concentrazione Pattese (monarchici, liberali, democratici del lavoro, socialdemocratici e indipendenti di destra); i 6 seggi della minoranza andarono al MSI, agli indipendenti di destra e alla lista Gruppo democristiani da non identificare con la DC ufficiale. Sia nel primo che nel secondo caso la sconfitta fu attribuita da molti al mancato impegno del Ficarra in favore della DC. Di lì cominciarono i guai del vescovo contrassegnati da frequenti lettere anonime, la prima delle quali, inviata nel marzo 1947, si concludeva con questo interrogativo: “Che cosa ci sta a fare ancora qua Monsignor Ficarra?”. -----------------------------------------------------La lettera era accompagnata da un articolo dell’Osservatore Romano in cui si esaltava la figura del cardinale Gaetano Bisleti “splendente esempio di vita sacerdotale… inesorabile nell’impedire l’accesso al Sacerdozio di coloro che egli giudicava inadatti”. In seguito fu fatto circolare un libello dal titolo "Elezioni Amministrative pattesi 1946-1949: il Responsabile della disfatta della Democrazia Cristiana". Il Responsabile, con la maiuscola, era ovviamente il vescovo. -----------------------------------------
Occorre osservare però che la disfatta della DC nelle amministrative di Patti fu dovuta soprattutto alla pessima gestione del partito cattolico da parte del suo prete-segretario, don Gaetano Calimeri, dal carattere scontroso e sempre in urto non solo col Ficarra ma anche con i vescovi che lo avevano preceduto, Ferdinando Fiandaca e Antonio Mantiero. La tesi di Leonardo Sciascia non appare del tutto convincente dal momento che nella stessa Patti in occasione delle elezioni politiche del 1948 la DC ottenne da sola 46.000 voti contro i 50.000 di tutti gli altri partiti (tra questi il Blocco Popolare e cioè i socialcomunisti ne ottennero appena 13.500). Certamente Angelo Ficarra non esternava il suo appoggio alla DC in maniera plateale, tenendo dei comizi, come allora usavano molti uomini di Chiesa, o partecipando a manifestazioni di partito. ----------------------------
Tuttavia l’impegno del presule in favore della DC è documentato con tutta evidenza da una lettera del 17 marzo 1948 inviata a Roma al presidente nazionale dell’Azione Cattolica: in essa lamentava di non aver potuto fare di più a causa della poca disponibilità di risorse, anche di carattere finanziario: “Illustrissimo Signor Presidente, alla fine di febbraio abbiamo ricevuto 25 buoni di benzina e siccome erano scaduti li abbiamo rimandati con lettera raccomandata del 5 marzo, perché fossero rinnovati. Ora siamo a marzo inoltrato e ancora non arriva nulla. La prego per favore di provvedere in merito con urgenza: ogni ritardo riesce assai dannoso. Dica a mons. Urbani che noi facciamo tutto il possibile, e nei 40 comuni di questa diocesi si spera che i marxisti non avranno alcuna vittoria. Ma qui ci tocca di lottare anche contro i massoni, i sedicenti monarchici e i fascisti camuffati”. (Gaetano Augello, Angelo Ficarra – La giustizia negata, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2008, p. 118). ------------------------------------------------------
Davvero "disimpegnato" questo vescovo che interviene anche sui buoni di benzina! Certamente Leonardo Sciascia non conosceva questo e altri documenti da cui risulta, pur nella sua atipicità rispetto a quello di altri presuli, l’appoggio del Ficarra alla linea di contrasto al comunismo portata avanti in quegli anni dalla Chiesa. Occorre osservare che al presunto disimpegno politico del Ficarra si fa riferimento esplicito soltanto in una delle lettere del card. Piazza, quella del 6 maggio 1949; la lettera peraltro appare dettata dalla necessità di acquisire informazioni sull’andamento delle elezioni, così come d’altra parte avveniva con tutte le diocesi italiane. D’altronde che le accuse relative alle vicende politiche non fossero determinanti nell’atteggiamento del Vaticano è confermato dalla durata del processo che andò avanti per molti anni. In caso contrario la Chiesa avrebbe agito con ben altra tempestività. Quando si pervenne alla destituzione del vescovo la situazione politica si era nettamente evoluta con una diminuzione della pressione della Chiesa sulla vita del Paese. E lo stesso Sciascia riconosce che la rimozione del Ficarra nel 1957 non era necessaria, ovviamente dal punto di vista della gerarchia ecclesiastica, così come lo sarebbe stata tra il 1946 e il 1953. -------------------
A seguito dei chiarimenti forniti dal vescovo, il Piazza nelle successive missive faceva soprattutto riferimento alla condotta morale del clero e in generale alla gestione pastorale della diocesi da parte del Ficarra, attribuendone le cause a motivi di salute: “Forse le non più floride condizioni di salute di Vostra Eccellenza possono essere la causa non ultima di un simile stato di cose, nonostante lo zelo ed il vivo interessamento di Vostra Eccellenza”. Espressioni queste contenute nella lettera del 25 ottobre 1949, una lettera particolarmente feroce, un vero capolavoro di ipocrisia e affettata gentilezza da parte del porporato, pronto nella sostanza a ferire senza pietà, disponibile a tutti gli eufemismi pur di arrivare a quanto aveva già irreversibilmente deciso: “All’Eccellenza Vostra non sfuggirà la gravità delle segnalazioni pervenute e pertanto, per dovere d’ufficio, debbo nuovamente richiamare la considerazione di Vostra Eccellenza ed invitarLa a meditare coram Domino sulle Sue responsabilità di Vescovo dinanzi alla Chiesa e alle anime… Ed è per questo che questa Sacra Congregazione è pronta a venirLe incontro qualora Vostra Eccellenza ritenesse di voler prendere una qualche decisione per il maggior bene delle anime. Voglia pertanto l’Eccellenza Vostra aprirmi confidenzialmente il Suo animo e farmi conoscere quelle decisioni che il Signore non mancherà di ispirarle”. -------------------------------
Considerazioni meramente pastorali sono presenti in altre lettere del cardinale Piazza, in particolare in quelle del 20 aprile 1950 e del 10 gennaio 1952: riflessioni riguardanti il numero dei sacerdoti ed il loro grado di cultura, la pratica religiosa del popolo e la fedeltà alla morale cristiana, la presenza capillare in diocesi di organismi come l’Azione Cattolica, le ACLI, il CIF, l’Onarmo, la disciplina e la condotta morale del clero, la vita parrocchiale, la direzione del Seminario, ecc.---------------------------------------------------
In Vaticano arrivavano da Patti voci allarmate sulla gestione della diocesi da parte di un gruppo di sacerdoti agrigentini, e canicattinesi in particolare, accolti con eccessiva benevolenza dal vescovo. A loro fu affidata l’amministrazione dei beni della curia suscitando vivo malcontento tra i religiosi locali. La gestione dei beni e dei fondi che allora giungevano in abbondanza dagli Stati Uniti non fu sempre corretta: il vescovo non era ovviamente al corrente di quanto di negativo gli accadeva intorno ma fu chiamato a giustificarsi per "culpa in vigilando". -------------------.
A tutto ciò sono da aggiungere “la speciale e difficile configurazione geografico-antropologica ed economico-finanziaria della diocesi e una certa inevitabile stanchezza progressiva manifestatasi nella stessa persona del vescovo Ficarra; tutti questi elementi contribuirono certamente a creare in alcuni la convinzione che fosse opportuno un avvicendamento al vertice della diocesi”. (Alfonso Sidoti, Mons. Angelo Ficarra tra cronaca e storia, in AA. VV., Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti, Agrigento, Sarcuto, 1999, p. 101). --------------------------------------------------
Altre tappe importanti nel calvario del Ficarra furono l’imposizione, il 22 aprile 1953, di un vescovo coadiutore "sedi datus" nella persona di mons. Giuseppe Pullano e la promozione dello stesso ad amministratore apostolico "sede plena ad nutum Sanctae Sedis" in data 2 marzo 1955. Il Ficarra era ormai vescovo di Patti solo formalmente mentre tutti i poteri di giurisdizione erano esercitati dall’amministratore apostolico. Una situazione umiliante, aggravata anche da una difficoltosa coabitazione all’interno del Palazzo Vescovile. Si volevano ad ogni costo imporre al Ficarra le dimissioni e, poiché queste erano rifiutate come frutto di estrema ingiustizia e tardavano a pervenire, il 13 dicembre 1954 il cardinale inviò una lettera che era un vero e proprio ultimatum: “… non vedo affatto l’opportunità che l’Eccellenza Vostra venga a Roma. Rimango invece in attesa che Vostra Eccellenza voglia farmi conoscere, al più presto, la data – che volentieri concedo possa essere anche dopo le feste Natalizie – nella quale Ella desidera che venga attuata la rinuncia alla diocesi di Patti”. ------------------------------
Trascorsero le feste natalizie ma il vescovo rimase ancora al suo posto fino all’epilogo drammatico del 2 agosto 1957. Angelo Ficarra, rimosso da vescovo di Patti, fu promosso ad arcivescovo di Leontopoli, un’antica diocesi in terra egiziana, "in partibus infidelium" appunto. La promozione di una persona buona e mite, al punto da apparire assai debole, ad arcivescovo della città dei leoni apparve a molti, ed allo stesso Sciascia, un’oggettiva offensiva ironia: “Saremmo maliziosi a sospettare una certa malizia – da parte della curia vaticana, della Congregazione Concistoriale, del cardinal Piazza – nella nomina di monsignor Ficarra ad arcivescovo di Leontopoli?”. ( Leonardo Sciascia, op. cit., p. 84). --------------------------------------------------
Il primo a percepire questa ironia sarà stato certamente il Ficarra, profondo conoscitore della cultura e delle lingue classiche. Prima della nomina a vescovo, Angelo Ficarra aveva associato all’attività pastorale di coadiutore a Ribera, di arciprete di Canicattì e di vicario generale della diocesi di Agrigento un’intensa e ricca stagione culturale. Il 27 giugno del 1914 presso l’Università degli Studi di Palermo conseguì col massimo dei voti e la lode la laurea in Lettere Classiche discutendo una tesi su "La posizione di San Girolamo nella storia della cultura" pubblicata successivamente in due volumi: il primo a Palermo nel 1916 e il secondo, col sottotitolo "Lingua e stile di S. Girolamo e sua influenza culturale", ad Agrigento nel 1930. Seguirono "La preghiera cristiana", "Lettera di S. Agostino a Proba Faltonia" e la traduzione dell’Akathistos, un inno antichissimo alla Madre di Dio. ---------------------------------------------
Su incarico del sostituto della Segreteria di Stato del Vaticano mons. Federico Tedeschini, Angelo Ficarra pubblicò nel 1929 il "Florilegium Hieronymianum" con prefazione in latino del professore Felice Ramorino. L’antologia, adottata in molte scuole e università cattoliche, ebbe vasta risonanza nel mondo culturale e nei piani alti del Vaticano, al punto che nel 1921 la Sacra Congregazione Concistoriale chiese al vescovo dell’allora Girgenti Bartolomeo Lagumina di potersi avvalere del sacerdote come vice segretario della Segreteria delle Lettere Latine, un incarico che avrebbe portato il Ficarra alla porpora cardinalizia. Lagumina però rispose: “Vi prego di lasciarlo stare perché non saprei come sostituirlo come arciprete di Canicattì”. Questo diniego impedì al Ficarra di poter assolvere ad un incarico a lui più congeniale che non la gestione di una diocesi particolarmente difficile che gli sarebbe stata affidata su proposta del successore di Lagumina, Giovanni Battista Peruzzo. Nel 1928, su invito di Giovanni Gentile, il Ficarra compilò la voce "Girolamo" per l’Enciclopedia Treccani. --------------------------------------------------
I venti anni trascorsi a Patti coincisero con un progressivo deterioramento fisico ed un esaurirsi della produzione letteraria del Ficarra: se si eccettuano le quattordici "Lettere Pastorali" nulla il presule poté o volle aggiungere alla sua produzione scientifica. E, quasi a voler riprendere l’antico percorso, tornato nella città natia dopo la destituzione, si recò più volte nella Tipografia Moderna dell’insegnante Giuseppe Alaimo per chiedere un preventivo di spesa per la pubblicazione delle "Meditazioni vagabonde". Il suo vecchio sogno non poté realizzarsi, pare, per le condizioni di vera povertà evangelica in cui viveva.
Anche per questo Leonardo Sciascia sentì vicina alla sua sensibilità la figura del vescovo canicattinese. -----------------------------------------------------Le due ricorrenze cui abbiamo fatto riferimento all’inizio cadono proprio nel ventennale della morte dello scrittore: sono stati ripresi in questa occasione temi relativi alla sua spiritualità e ad una presunta conversione cui aveva fatto riferimento durante i funerali, con estrema mancanza di rispetto e di senso dell’opportunità, l’allora vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro che sviluppò tutta la sua omelia sul discorso del buon ladrone affrancato dal peccato e pronto a salire in cielo con Cristo il giorno del venerdì santo. Argomentazioni queste basate soprattutto sul mancato rifiuto di esequie religiose da parte dello scrittore. Non hanno capito, questi convertitori "post mortem", che nel non aver nulla deciso sui suoi funerali, Sciascia, con assoluta estrema coerenza, ha confermato la sua indifferenza, il suo estremo distacco da certe problematiche, indifferenza e distacco ben più pregnanti ed eloquenti di eventuali esplicite contrapposizioni. ---------------------
E proprio in "Dalle parti degli infedeli" troviamo conferma del modo in cui Leonardo Sciascia si poneva nei riguardi di questi temi. Lo scrittore evidenziava come la lettera del cardinale Piazza al Ficarra del 10 gennaio 1952, quella in cui per la prima volta si suggerivano al vescovo le dimissioni, contenesse sulla busta questa scritta a stampa: "Sub secreto S. Officii: Violatio huius secreti, quocumque modo, etiam indirecte commisa, plectitur excommunicatione a qua nemo, ne ipse Eminentissimus Maior Poenitentiarius, sed unus Summus Pontifex absolvere potest"; mentre quella del 16 luglio 1954, in cui si insisteva sul medesimo invito in maniera perentoria ed ultimativa, ne contenesse un’altra dattiloscritta: "Sub secreto pontificio". Lo scrittore con somma ironia si poneva il perché della differenza delle due scritte e dei due tipi di scomunica su lettere che in fondo chiedevano la stessa cosa: “E’ una domanda di pura curiosità, poiché noi – chi mi ha confidato queste lettere, io che le trascrivo per destinarle alla divulgazione la più vasta – sappiamo bene di stare incorrendo in entrambe: se due, diverse per qualità e per effetti, le censure sono. Comunque ne basta una: quella che la dicitura a stampa esaurientemente definisce… Si tratta, indubbiamente, della “scomunica maggiore”; quella che il Tommaseo – che se ne intendeva – dice che “separa interamente dalla Chiesa e da ogni comunione col resto dei fedeli” (mentre la “minore” interdice soltanto l’uso dei sacramenti)”.
E, dopo questo dettagliato e mordace "excursus" teologico, la conclusione che potremmo definire sommamente sciasciana: “Saremmo dunque, automaticamente, scomunicati? E vorrà l’attuale Sommo Pontefice assolvercene? Tutto considerato, è affar suo”. (Leonardo Sciascia, op. cit., p. 53). Ove lo scrittore, con l’espressione “tutto considerato”, riprende volutamente un’espressione tipica dello stile aulico della curia vaticana, "omnibus perpensis", adoperata nella lettera già citata che il cardinal Piazza indirizzò al Ficarra il 13 dicembre 1954: “Dopo aver riflettuto a quanto l’Eccellenza Vostra Rev.ma ha potuto esporre, e tenendo in considerazione proprio la stessa lettera, non ho che a confermarLe, omnibus perpensis, quanto già significatoLe con precedente Officio in data 13 novembre c.a.”.
Leonardo Sciascia contrapponeva all’atteggiamento “ostinato e impaziente” di Adeodato Giovanni Piazza il “tergiversare”, in apparenza “dispettoso” ma nella realtà “pietoso”, del vescovo di Patti; una pietà “verso la Sacra Congregazione, verso lo stesso cardinale: che si accorgessero dell’errore, dell’ingiustizia che stavano commettendo”. Una “pietà” che il Ficarra sostanziava in quella preghiera che dovrebbe essere attività precipua della Chiesa: “… mi è facile immaginare che in quei giorni, in quegli anni, per quella vicenda, abbia tanto pregato: per la verità, per coloro che non la vedevano o che, vedendola, la calpestavano. Per la Chiesa visibile che troppo visibilmente adunava gli iniqui al tempo stesso che respingeva gli assetati di equità (e sarebbe dir meglio affamati, riferendoci ad anni in cui l’equità nemmeno si riusciva a vederla consustanziata in pane)”. (Leonardo Sciascia, op. cit. , pp. 54-55). ----------------------------------------
Angelo Ficarra, non più vescovo di Patti e quindi non più conte di Librizzi, barone di Gioiosa Marea, principe del SS. Salvatore, gran castellano del castello di Patti, abbattuto e umiliato dalla sua Chiesa, aveva ritrovato ed ulteriormente esaltato la sua dimensione di uomo di profonda fede e grande cultura. ----------------------------------------------- GAETANO AUGELLO

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Lillo Taverna Profonda, colta, documentata analisi. Reputo comunque che quando si apriranno i fascicoli su caso Ficarra dell'Archivio Segreto Vaticano - che ho avuto modo di intravedadere solo dalle catalogazioni - cadrà del tutto la tesi di Sciascia, ma verrà meno anche quella agiografica ricorrente in ambienti religiosi. Sciascia non era uno storico, non amava esserlo, credo che avesse disgusto per la cosiddetta 'verità storica'. Si invaghi talora di taluni spunti per i suoi apologhi intelligentemente caustici. ironici, moscredenti soprattutto anarchici. Per me il pensiero di don Giuseppe, l'abate Vella insomma del Il Consglio d'Egitto, rispecchia l'idea della storia che aveva invece proprio il sommo Leonardo. Leggo la pag. 533 del testo che ho qui sottomano: "l lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un'impostura: e c'è più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci vuole più lavoro, ad inventarla" ... "tutta un'impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell'albero, un autunno appresso all'altro? ..... La storia delle foglie, la storia dell'albero. Fesserie!" E davvero possiamo credere che Sciascia pensasse di scrivere un libro di storia ecclesiastica sulla base di quelle poche lettere a sua disposizione? Se voleva andava a fare ricerche in Vaìticano e avrebbe avuto modo di spulciare quei fascicoli che l'indomabile arciprete di Canicattì intuì, ammesso che non li abbia consultato, come confessa nel presentare il testo del nostro grande prreside Augello. E per me la 'verità storica' (alla quale neanche io credo) è quella di un vescovo davvero pio colto ma svagato che era finito nelle grinfie di preti mauioli pare suoi compaesani che avrebbero messo economicamente a soqquadro la periferica diocesi di Patti. La mia stima del cardinale Piazza è profionda - e poi agiva mi pare sotto Giovanni XXIII - e non lo faccio capace di un atto vindice della scarsa fede democristiana che l'austero Ficcarra mostrava. Ma forse anche io qui casco nellla sciasciana impostura storica. A 85 anni Dio me ne guardi.

sabato 13 ottobre 2018





Racalmuto e la mafia

L’eloquio di don Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava. Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese:  «La piazza era silenziosa nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo  [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un cornuto … » .
Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960 linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.

Ma don Mariano, se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica.  («Diventa filosofo, a volte, pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima  il discorso diventa grifagno, acido, senza indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni  pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.

Se crediamo a Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in  Piazza Castello, tentando di vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione  - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamente, anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.

Se ci si domanda com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo, la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella, il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?

Piluccando da “il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo],i suoi materiali, nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla Si capisce che ci sono i testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quel Sciascia lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on. Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.

Per Sciascia il fenomeno della mafia è inestirpabile. Se  Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a lungo.
Sciascia: Allora la mafia era la mafia.
Porzio: Era una mafia per bene?
Sciascia: Per bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.


Sulla mafia durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella dissertazione. Dicevamo.

domenica 16 settembre 2018

Michele Amari nel ripercorrere le cronache del Malaterra parla di 11 'castella' disseminati nell'arigentino. Non sappiamo se con quel termine intendeva un incastellamento vero e proprio o agglomerati abitativi fortificati. Non sappiamo neppure se erano arabi o erano di provenienza bizantina.
Comunue stian le cose, quel che a noi importa è che non vi è alcun esplicito riferimento alla nostra Racalmuto.
Ove si eccettui quel Racel che ci aveva un tempo affascinato. Ma oggi siamo ben lontani dall'attriburgli un qualche legame con il paese in cui siam nati.
 

 
Oggi leggo e rileggo questa chiusa di uno scritto minore dello storico Giarrizzo. Pubblicato un quarto di secolo fa per una accademia clericale agrigentina.
Vi si fa una lettura rivoluzionaria della storia della Sicilia. Annotava il Gabrielli: Giarrizzo inaugura il presente volume con una densa relazione su 'Normanni di Sicilia' e giunge 'quasi all'orlo della dissacrazione, parlando del mito arabo e arabo.normanno'.
A me vien fatto di pensare che in Sicilia può consumarsi ...una vera palingenesi politica ed economica dell'Italia del terzo millennio.
Istititi come la Regione Siciliana, politici di forte taglia quali i Micciché, i Capodicasa, e per me i vari Angelino Alfano e i vari Cimino (per escludere Maninno) possono consumare un moderno separatismo: scavalcare la querula arroganza di salvini e iniziare un dialogo costruttivo e anche avveneristico con la superiore istituzione comunitaria.
Quante volte è successo nella storia? dai Vespri Siciliani ai Fasci Siciliani, a Sturzo, a La Loggia, a Milazzo, a Emmaniele Macaluso.
Se a Roma sono imbecilli e vanno a leccare il culo a Trump o a Putin, a Palermo NO!.
Come Regione a Statuto Speciale percostituzionale e sovracostituzionale - tramite forse lo stesso Mattarella magari veicolato con G.L. Ciocca - iniziamo rapporti salvifici con la BCE di Draghi.
Abbiamo tanto da guadagnare e insegneremmo la 'retta via' a questi balordi dell'attuale triarchia egemomnizzata da una lega di origine pannoniana e da un ciarpame pentastellato.
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