martedì 9 maggio 2017

Corriere della Sera - 30 aprile 2017 - pagina 28

Perché lasciare l’euro costerebbe caro

di Pierluigi Ciocca
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Uscire dall’euro, dalla Ue? La risposta è no, senza «se» e senza «ma»! Si infliggerebbero ai cittadini italiani perdite devastanti. Immediatamente la «lira» si deprezzerebbe. Sarebbe decurtata la capacità delle famiglie e delle imprese di acquistare all’estero beni, servizi, attività reali e finanziarie. Il cedimento del cambio provocherebbe inflazione importata, e conseguente erosione del valore reale del risparmio monetario, degli stipendi, delle pensioni. Il mero prender piede dell’ipotesi dell’uscita tra le forze politiche diffonderebbe sfiducia nei mercati finanziari e aspettative inflazionistiche. I tassi d’interesse schizzerebbero verso l’alto. Crollerebbero i valori dei cespiti patrimoniali, a cominciare dai titoli obbligazionari e azionari in portafoglio. La carenza di mezzi finanziari e l’aumento del costo dei mutui deprimerebbero le quotazioni degli immobili, pari a oltre il 60% della ricchezza.
Il sistema bancario – ben supervisionato dalla Banca d’Italia – ha retto alla crisi finanziaria internazionale e alle due recessioni che nel 2008-2013 hanno abbattuto il Pil del 10%. Nondimeno, il cedimento del cambio, l’inflazione, l’ascesa dei tassi d’interesse, le difficoltà del debito pubblico, le risposte restrit-tive della politica monetaria e fiscale a questi squilibri determinerebbero una terza recessione. Non poche aziende di credito precipiterebbero nell’illiquidità e nell’insolvenza. Le loro perdite ricadrebbero su risparmiatori e contribuenti.
Agli italiani va detto con chiarezza che s’impoverirebbero. Il loro patrimonio (10 mila miliardi di euro) scemerebbe di centinaia di miliardi, il Pil del Paese (1,6 mila miliardi) di decine di miliardi. Financo più preoccupanti sarebbero i rischi oltre l’economia. La società italiana è sottoposta a spinte centrifughe laceranti, nella frammentazione fra partiti e movimenti variamente affetti da qualunquismo, populismi, mediocrità. La residua coesione è affidata al sistema pensionistico pubblico, alla sanità pubblica, al patrimonio individuale. Tutti e tre i pilastri, e segnatamente il patrimonio, sarebbero scossi dall’uscita dall’euro. Le tensioni da economiche diverrebbero sociali, politiche, istituzionali fino a porre a repentaglio le stesse basi democratiche del vivere.
L’euro è un’ottima moneta. È solida. È domandata, anche internazionalmente. È valuta di riserva. Resiste persino agli sforzi della Bce di buttarla giù in un’irrituale svalutazione competitiva rispetto al dollaro. Il limite della UE non è nella moneta, ma nello stile di governo dell’economia europea, condizionato da una Germania neo-mercantilista con cui si deve tornare a trattare seriamente, non per decimali di bilancio pubblico. Sono in errore coloro i quali pensano che una moneta deprezzata darebbe fiato alle esportazioni, rilancerebbe profitti e investimenti. L’Italia non ha un disavanzo verso l’estero da correggere. Ma anche a tale fine la svalutazione «funzionerebbe», e limitatamente al breve periodo, solo se vi si unissero il freno della domanda interna e il taglio dei salari. Vuoto della domanda globale e ragioni d’equità distributiva rendono siffatte condizioni inaccettabili.
Le svalutazioni non hanno mai risolto il problema economico italiano. Dal crollo della lira del 1992 – non a caso! - esso si configura come uno strutturale «problema di crescita»: improduttività, debito pubblico, infrastrutture carenti, inadeguatezza del diritto dell’economia, bassa concorrenza in molti mercati. Il grosso delle imprese non cerca più il profitto attraverso l’investimento e l’innovazione. Lo attende dal danaro pubblico, dalla debolezza dei sindacati, dalla non-concorrenza. Il cambio lasco le dissuaderebbe ancor più dalla ricerca dell’efficienza e del progresso tecnico. La politica deve capire che per il bel paese una moneta debole sarebbe solo l’ultimo dei flagelli.


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