giovedì 6 luglio 2017

mercoledì 21 ottobre 2015

Beatrice Ventimiglia Del Carretto







Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. [1] La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione  racalmutese del Seicento.

Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 [2] altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.

Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 [3] ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto successivo al bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che il poco ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.

La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello in paese. Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino al tempo del cardinale Doria. In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo, che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'. II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.



   Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del Pirri. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni,  ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che si trovava dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.

Per uno studioso del luogo non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»

Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato) nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova” usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il citato studioso locale non intende dar credito all’Acquista.



Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.


Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.


Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xx.liis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.

Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XX.lijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XX.lijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636. [4]  E già ad Agrigento imperversava il vescovo Traina.

 


 


GIOVANNI  V   DEL CARRETTO





Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un tempo comprato dai Vernagallo .

La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.

Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.» [5]

Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: [6]«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.

«Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.

«[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.

«Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del  Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo.»


La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto ce la fornisce un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina .[7] Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:

«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]

«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]

«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367][8]


Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.


Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.


Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo




Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.

Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita)  e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella.  Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali,[9] che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».

Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.

«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»


Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»

Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare. Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria. 

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