domenica 24 dicembre 2017

Si è visto come per desiderio di Garibaldi sia salito al parlamento di Torino il deputato La Porta: un personaggio battagliero, talora equivoco, protagonista comunque di non poche battaglie parlamentari. I fatti del 1862 ebbero risonanza e risonanza arroventata in parlamento. Nella torna del 7 aprile del 1962 s’incardina la discussione sull’interpellanza del La Porta. [17] Si tratta dell’ «andamento amministrativo nella Sicilia». Il focoso giovane deputato siciliano è dispersivo, logorroico e non riesce a mordere come vorrebbe. Molti prolissi periodi gli occorrono prima di introdurre l’oggetto della sua interpellanza: «noi deplorammo il favoritismo, la protezione governativa, la preferenza che il Governo accordava all’elemento della scacciata dinastia in tutti gli uffizi» finalmente inizia ad accusare per riprendere le fila del discorso sull’onda del ricordo «noi rimproverammo gli abusi, le violenze che alcuni agenti del potere esecutivo in Sicilia perpetravano a danno dell’elemento liberale, a danno di quell’elemento che godeva e gode la simpatia delle popolazioni.» Il riferimento al prefetto Falconcini è palpabile; l’eco della persecuzione del racalmutese Matrona, evidente. Ma abbiamo visto che il Matrona opportunisticamente ebbe invece ad accordarsi con il prefetto, scagionandolo da ogni accusa: la convenienza fece aggio sulla verità, segno non proprio di grande elevatezza morale dei conclamati Matrona.
Per l’on. La Porta, era stato vessato proprio quell’elemento che «rappresentò in Sicilia la iniziativa della rivoluzione del 1860, la capitanò, guidò il popolo al plebiscito del 21 ottobre e, qualunque volta la causa dell’unità nazionale o dall’opera dei retrivi o dagli errori del Governo sia compromessa nell’isola, malgrado i torti ricevuti, non mancò mai al suo dovere.»
Il Laporta infierisce. «noi abbiamo accusato la lentezza, la trascuratezza governativa in materia di opere pubbliche; le strade, i ponti, i porti, o non iniziati, o lentamente o deplorevolmente avviati; il denaro pubblico con poca utilità speso; le leggi votate dal Parlamento per quelle provincie, sterile e derisoria parola.» Un ritornello, una posta del rosario che spesse volte, fino alla noia, verrà dopo ripetuta, in tutte le epoche, sotto i vari governi, persino fino ai nostri giorni. Dopo un anno e mezzo, francamente era solo retorica esigere chissà quali miracoli governativi. Ma dopo, col tempo, quel rosario amaro verrà recitato con ben più solida fondatezza.
Certo ha ragione La Porta ad ironizzare sui «rapporti dei prefetti che descrivevano l’isola beata e tranquilla e quasi inneggiante un cantico di benedizione ai ministri costituzionali.» In effetti c’era da fare una «requisitoria dello stato d’assedio, per dimostrare alla Camera quale fu specialmente il terreno, ove quel Ministero [il dimissionario Governo Rattazzi, n.d.r.] esercitò le sue violenze, le doportazioni in massa, le fucilazioni senza giudizio, ogni atto, non dirò di Governo assoluto, ma dirò un’altra parola, dirò di despotismo ...» Qualche esagerazione, senza dubbio; ma un quadro nella sostanza terribilmente rispondente al vero. Altro che Falconcini, vittima di chissà quali ingiustizie!
Il La Porta scende a dettagli: «Il tenente dei carabinieri in Naro, provincia di Girgenti, annunziò pubblicamente che aveva bisogno di un esempio durante lo stato d’ssaedio in quella città; manifestò volere la fucilazione di un infelice Puleri Manto, e quella fucilazione fu eseguita. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Marsala è quello stesso che arrestava il signor Andrea Danna, il primo cittadino di quel paese. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Misilmeri [procedeva a ] 37 arresti che fece per pure ire personali. ... Gli arrestati dopo pochi giorni, riconosciuti innocenti, furono messi in libertà.»
Ma il quadro dell’ordine pubblico era in ogni caso desolante. «La sicurezza pubblica in Sicilia è ridotta ad un’amara delusione. Migliaia di renitenti alla leva, migliaia di evasi dalle prigioni battono la campagna; e già alcune bande si sono organizzate e specialmnete nelle provincie di Palermo, di Siracusa, di Girgenti, alcune bande che spargono il terrore in tutti i proprietari, che rubano, assassinano ad ogni momento.» E quanto ad Agrigento, «i proprietari stanno rinchiusi in casa; nemmeno si attentano di uscire in città. E’ raro che uno dei grossi proprietari di quel circondario non abbia già ricevuto un biglietto di scrocco, e non tema di uscire dalla casa per non incorrere nella vendetta di coloro che hanno richiesto una somma di danaro e che essi non si trovano in grado di pagare. Il barone Genoardi è stato tassato per cento mila lire. Il signor Vincenzo Mendolia è stato tassato per duecento mila lire, e così molti altri. [...] Il numero dei renitenti alla leva in quel circondario ascende a 600 per la leva del 1842, oltre poi quelli del 1840,1841 ed oltre 900 altri. In tutto tra renitenti alla leva ed evasi dalle prigioni sono 1650 nel solo circondario di Girgenti. [...] A pochi passi dalla città di Girgenti vi è un ladroneggio organizzato colla sua burocrazia: coloro che trasportano zolfo appena usciti dalla città trovano cinque o sei ladri che ne notano il nome e impongono loro una taglia; al ritorno la taglia è esatta e il nome cancellato.»
Prende quindi la parola il deputato Ricciardi per ragguagliare su talune amenità: « Ho avvicinato ed interrogato ogni ceto di persone, cominciando dal principe e terminando all’artigiano, non ho udito mai voce che lodasse l’opera del Governo. [..] Quest’isola godeva sotto i Borboni di alcuni privilegi, i quali naturalmente doveva perdere all’apparire della libertà e dell’unità nazionale. Certamente un paese dove non esisteva la leva e che ha dovuto sobbarcarsi alla medesima, deve essere assai malcontento; quindi i cinque o sei mila refrattari di cui è forza deplorar l’esistenza. In Sicilia non v’era carta da bollo, ora non vi è solo questo, sìbene il registro ed il bollo, che han rovinato tutte le classi le quali viveano del foro. [...] Debbo dirvi ora una parola intorno alle carceri di Palermo ... Signori, in quelle carceri ho scorto cose degne del medio evo, cioè 1400 detenuti, di cui pochissimi condannati, i più tenuti a disposizione della questura, e non interrogati da tre, da sei, da diciotto mesi! Alcuni tenuti in celle nelle quali passeggiano come fiere in gabbia, e senza lavoro! Altri, tenuti in vastissimi cameroni in numero di 100 o 150, senza un misero pagliariccio; dormono avvolti in mantelli, e lascio immaginare a loro, signori, che cosa debba avvenire la notte in quei cameroni.»
La risposta del ministro Peruzzi è scontata: burocratica, evasiva, legittimista. Ma quelche spunto è degno di menzione: «... debbo osservare come disgraziatamente siasi verificato che taluni proprietari adoperano pei lavori di campagna preferibilmente dei renitenti alla leva ed altri che trovansi in questo stato extralegale, perché fanno pagar loro questa irregolarità di condizioni col prestar loro una mercede minore di quella che accordano agli altri lavoranti.»
Noi non abbiamo dubbi: a Racalmuto i galantuomini, grandi proprietari di terra, fecero fortuna a sfruttare quei poveri renitenti. Chissà i commenti al circolo di compagnia.
Il Peruzzi è tagliente nello stigmatizzare la manomorta ecclesiastica agrigentina. « La provincia di Girgenti è quella dove la maggior parte dei beni sono nelle mani delle corporazioni religiose e del clero. Io stesso, visitando la provincia di Girgenti, ho dovuto maravigliarmi, come dopo aver veduto una quantità di solfare vicine l’una all’altra, dovessi poi attraversare lungo tratto di paese senza vederne una. Ebbene, quel lungo tratto di paese era proprietà della mensa arcivescovile, o vescovile non so, di Girgenti. Quella mensa non voleva dare ad altri la facoltà di ricercare depositi di zolfo, né coltivarli né tampoco li ricercava e coltivava essa stessa. L’industria stessa degli zolfi, o signori, non contribuisce per avventura alla maggior moralità di quelle popolazioni, e di questo possono convoncersi tutti quelli che hanno esaminato le condizioni nelle quali quell’industria viene esercitata.
«Inoltre la provincia di Girgenti ha avuta la disgrazia d’avere un’evasione di detenuti, dei quali una piccolissima porzione si è potuta riprendere, mentre degli altri che è egli avvenuto? Si sono forse costituite delle bande armate in quella provincia? Niente affatto. Tutte le ricerche fatte dalla forza militare sono riuscite inutili, ed ho quindi motivo di credere che anche questi siano stati, per così dire, riassorbiti dal apese, che si siano sparsi per le barie borgate, per le varie masserie, per le varie solfare, e che di là facilmente si muovano a commettere i delitti. [...] Io ho cambiato il prefetto di quella provincia perché ho creduto che questa misura fosse indispensabile. Ho invitato il prefetto a propormi il cambiamento di delegati e di altri funzionari sotto i suoi ordini, scioglimenti di Consigli comunali e di guardie nazionali, ed egli mi ha risposto che effettivamente conviene adottare siffatte disposizioni. »
* * *
Bisogna dare atto ad Eugenio Napoleone Messa di avere bene inquadrato l’avvicendarsi dei sindaci di Racalmuto dopo l’Unità d’Italia. La successione dei sindaci nel ventennio successivo alla venuta di Garibaldi l’abbiamo vista prima. Oltre ai dati di cronaca del Messana, noi disponiamo di queste risultanze d’archivio.
Maggio del 1860
Al convento dei Minori sotto titolo di S. Francesco di Assisi di Racalmuto (convento di S. Francesco), dimorano questi frati: 1° fra Michele Antonio Garafalo, guardiano; 2° fra Salvatore Mirisola; 3° padre Luigi Scibetta.
1864
Nel convento di S. Francesco ora l’organico dei monaci era composto dal solito fra Scibetta, da fra Pietro Calamera, dal p. Fracesco Mulé, da fra Giuseppe Scimè detto Cicolino, tìlaico terziario e da fra Antonio Chiodo:
1866
Il 24 agosto 1866 abbiamo l’ultima registrazione del convento di S. Francesco. Poi tutto passa in mano laica per le note leggi eversive. Fra Francesco Mulè sottoscrive ricevuta “a buon conto del mio vestiario della somma di onze 16, dico 16). Si chiude la gloriosa storia del convento di S. Francesco di Racalmuto: l’eremo dei Minori di S. Francesco chiude i battenti per volontà degli estranei piemontesi. Le terre - appetibilissime - passano in mano ai furbi e fedifraghi notabili locali.
1869
27 giugno 1869 “Mene mazziniane (lettera da Firenze): «il partito mazziniano a tentato, tenta , ed in ogni modo studia per avere degli affigliati nelle vie ferrate e negli uffici telegrafici». [18]
11 agosto 1869 «Avendo con la massima riservatezza e circospezione indagato sulla condotta di questo Ufficiale telegrafico sig. Tulumello Salvatore di Luigi non ho osservato sinora dal suo contegno alcun indizio da cui desumere che fosse un affigliato o cooperatore del partito Mazziniano», Il delegato Morra (?) al Prefetto [dall’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Racalmuto]. [19]
1870
Racalmuto 14 giugno 1870 «...Venendo agli uffici pubblici, incominciando dalla Pretura diretta da qualche mese dal vice pretore, procede regolarmente, però sarebbe desiderabile che venisse al più presto possibile il nuovo Pretore titolare sig. Ripollina, che si attende, per dare maggiormente spinta ed attività al regolare andamento dell’amministrazione della giustizia. Sui Reali Carabinieri non v’è cosa di proposito da osservare in contrario; sarebbe però utile che il comandante della stazione sig. Bertelli, bravo giovane, spiegasse maggiore energia per disciplina sui propri dipendenti, i quali profittandosi della bontà del loro capo sono un po’ rilassati nel servizio, non prestando con quella attività che si richiede; attività indispensabile per potere alla meglio sorvegliare il territorio, e l’abitato che sono vasti, mentre la forza è ristrettissima, per cui si dovrebbe aumentare la Stazione almeno di altri due Carabinieri non essendocene che quattro, con altrettanti soldati: forza la quale rimane quasi esclusivamente in continuazione per la scorta delle due corriere postali che transitano in questo stradale ogni giorno.
«Il servizio delle due guardie campestri esistenti Deleo e Vinci, è del tutto trascurato da poiché il Municipio invece di farli disimpegnare il proprio incarico li lascia praticamente addetti ai propri particolari e di scorta al sig. Sindaco, sig. Matrona, Giunta, parenti e amici. Si dice pure che i suaccennati agenti spalleggiati dall’Autorità Comunale commettono scrocchi, ma nulla si può accertare di positivo.
«Gli Uffici del registro, telegrafico e poste non danno motivo a lagnanza nel pubblico, però ci vorrebbe un poco più di attività in quest’ultimo servizio, e che il capo dell’Ufficio sig. Borsellino non fosse trascurato nel prescritto orario di tenere aperta la Posta, e non abbandonasse quasi totalmente il servizio al suo commesso sig. Grillo Calogero buon giovane, ma piuttosto inesperto e distratto. L Delegato [firma illeggibile].»
Il sindaco che nel 1870 si serviva di quella guardia campestre, che poi vedremo sinistra protagonista in casa Matrona, era il notaio Michele Angelo Alaimo che precede don Gasparino che sindaco lo diventa nel 1872: frattanto quel Matrona era consigliere provinciale (dal 1868 al 1871): tanto bastava per dirottare la non proprio pacifica guardia Vinci a seguire ed avere in custodia l’intera famiglia dei già arroganti Matrona. Borsellino aveva in mano la Posta ma l’affidava ad un giovane definito «inespero e distratto»: Calogero Grillo. Uno spaccato dellA Racalmuto del 1870 non proprio esaltante.
Ma vi era maretta in Municipio. «...l’assessore sig. Matrona Paolino ha dichiarato alla Presidenza lo stsesso non volere far più parte della Giunta Municipale, manifestando essere stato fin oggi in carica, perché il dovere lo chiamava di sentire prima cerziorata la gestione, onde potere al caso rispondere contro ogni insidia e scandaloso mendacio. Il consigliere Gaspare Matrona presa indi la parola, come nel paese vaghe e insidiose calunnie spinte da spirito di parte siano circolate ad appuntarel’integrità del Sindaco e del Corpo Municipale. Per quanto calunniosi ed insensati siano gli appunti, lo provano al Consiglio i presentati conti; la reputazione delle individualità che hanno fin oggi composto la giunta municipale e quando parlo di individualità, egli dice, io non scendo a determinare quella del sig. Matrona Paolino, mentre lo stesso all’oggi dà sicura del nome, unisce solo a scuola dei maldicenti, l’aversi trovato una sola famiglia componente la giunta municipale, essere stato il solo estranei fra tre fratelli cognati sindaco ed assessore. Signori, egli dice, non è mia arte, né bisogno l’assegnare la nostra famiglia Matrona a promotore di ogni bene del paese. L’invidia, la reazione, il regressismo, sono stati questi spettri dell’avvilito stato di questo Comune, che bene spesso ci han gettato il guanto della sfida; e noi l’abbiamo sempre accettato. Al regresso abbiamo risposto, collo spingere per quanto in noi è stata la forza, il progresso; alla reazione coll’arme alla mano del 6 settembre 1862 abbiamo risposto colle armi; alle invidie e calunnie che circolansi nel paese contro l’onestà, risponderemo nella possibilità di provare, colla traduzione innanzi ai tribunali dei colpevoli. Solo mi è dolorosotanta mia opera essere difficile, perché i vili in questo sono astuti e circospetti per scoprirsi; la loro voce [non attacca]; loro non si mostrano di fronte all’onestà ed il loro rantolo d’infamia come cupo e sepolcrale rombo priva anche i più ... attenti a poterne diffinitivamente discercare il movente e segnarne il calunniatore.
«Il consigliere Cavallaro sig. Felice presa la parola ha significato al sig. Matrona che nella difficile arena municipale non si è mai risparmiato d’insidiosamente attentare l’onestà dei rappresentati: e che chi si ha avuto la rappresentanza municipale in qualunque epoca, è stato sempre segno di calunnia.
«Conto dell’entrata e dell’uscita del comune di Racalmuto - per l’esercizio reso dal suo esattore e tesoriere il signor Leopoldo Muratori - [popolazione abitanti n.° 12.500]: dai licenzi dei dazi appaltati al sig. Agrò Alfano Baldassare L. 1.118; da Pietro Buscemi fu Vincenzo appaltatore dei dazi sopra le tegole, mattoni, gesso, calce, tavole, legname e ferro L. 1.238; da Petrotto Giuseppe fu Nicolò appaltatore del dazio sopra la paglia L. 98.»
Ironia della storia: chi avrebbe mai detto che il più circospetto e sagace figlio di Racalmuto, Leonardo Sciascia, avrebbe fatte sue quelle sgangherate parole apologetiche di don Gasparino Matrona, parole che ma celano uno stato di disagio per accuse infamanti contro il congiunto don Paolino Matrona. Nel circolo dei civili, per chi si parteggiava?
Intanto le asettiche carte degli archivi agrigentini ci sciorinano questi dati:
Prefettura di Girgenti - Racalmuto - Consuntivo del 1870
Conto 1871 = Manutenzione Cimiteri: al sig. Lupi cav. Carlo per piantagione cipressi, per cancello di ferro, tavolo mortuario e croci impiantate L. 600.
Conto 1872: al sig. cav. Lupi Carlo, appaltatore dell’illuminazione notturna; al sig. Picone Salvatore per trasporto prostitute L. 10.
1873
19 marzo: fibrillazione in Sicilia per l’onomastico di Garibaldi e di Mazzini. Il 26 marzo il delegato sig. De Benedectis può assicurare il prefetto: non risulta che qui «il partito avanzato avesse inteso promuovere qualche dimostrazione per il giorno 19 corrente.» Calogero Savatteri sarà stato un mazziniano, ma se ne sta buono a curarsi i suoi cospicui interessi. Ancora non poteva permettersi neppure una qualche strampalata concione al Mutuo Soccorso, per il momento feudo incontrastato dei Matrona, liberali sì ma antimazziniani.
2 giugno 1873: « Ieri celebravasi in questa la Festa dello Statuto Nazionale. Il Municipio con tanto lodevole zelo, impegnavasi che tal festa riuscisse con solennità; infatti appena fatto giorno il suono della musica e taluni colpi di mortaretti annunciavano la fausta ricorrenza. Tutte le botteghe lungo il corso, pavesate del tricolor vessillo. Alle 11 il sottoscritto, insieme a tutte le locali Autorità, Consiglieri, e ceto civile, dietro invito di questo signor Sindaco, sono convenuti nel Palazzo di Città, ove riunitesi al Municipio, e tutta la scolareca, seguiti dalle bandiere, e musica, sono andati al Duomo, ove il Clero ha cantato l’Inno Ambrosiano, assistendovi anche il Parroco, e finita tal sacra Cerimonia, si è nuovamente recato nel Palazzo di Città, ove fatti i soliti evviva, e felicitazioni, si è sciolto il convegno. Nelle ore pomeridiane la musica ha continuato ad allettare i Cittadini, fino alle ore 10 ch’ebbe fine la festa. Intanto il suddetto giorno non deplorossi alcun reato, essendo l’ordine pubblico tranquillo. L’Ufficiale di P.S. in missione Luigi Macaluso.» Che motivo avesse l’arciprete Tirone di cantare il Te Deum in lode degli scomunicati sabaudi, quelli della breccia di Porta Pia del 1870, è di ardua ricognizione ma di pesante sospetto. Il ceto civile - quello del circolo unione - è ovviamente del tutto ossequioso: magari la sera, qualche frecciatina verso i nuovi opportunisti (assenti) non sarà stata risparmiata - allora come ora.
Il Messana (op. cit. pag. 495) pubblica un interessante manifesto politico del Tulumello del 1873. «La consorteria - vi si dice e si parla ovviamente di quella del Matrona - vi chiamerà all’urna colle solite promesse, minacce e mostrandovi alle occorrenze anco la carabina!» La congrega del barone Luigi Tulumello era composta da Ignazio Picone Alfano, da Ignazio Alfano Vinci, da Felice Cavallaro Salvo e dal farmacista Lo Presti, nonché da un maltrattato (dal delegato di S.P.) Giuseppe Romano Alessi che definivasi presidente della società operaia. A parte quest’ultimo, si trattava di galantuomini dissidenti che amavano definirsi “cittadini onesti, intelligenti e liberali a tutta prova”. Cercava di far breccia tra i Messana (per i fatti del 60), tra i Picone (per le minacce e le offese personali patite), tra i Mantia (per gli spudorati attentati alla loro proprietà ed alla loro vita); ai Borsellino (per le infamie subite), ai Grillo (per gli orribili fatti del 60 e del 62), ai Picataggi (per gli arresti arbitrari subiti); ai Lo Presti (per un asserito furto ai loro danni); agli Alfano, ai Farrauto; ai Mantione (per imputazioni, oltraggi .. ed il carcere a San Vito). I Tulumello comunque in quella tornata elettorale non vinsero. Si consolida anzi la saga del mecenate don Gasparino Matrona. Per poco, però. Il crollo del 1875 incombe.
1874
Gioacchino Savatteri viene eletto membro del consiglio provinciale per il mandamento di Racalmuto con voti 143 per l’anno 1874
1875
«Prefettura di Girgenti - Duello fra don Gaspare Matrona e Barone Tulumello. 3 settembre 1875 - Si vuol per certo un duello fra Matrona don Gaspare e B.ne Tulumello da Racalmuto, ove forse avverrà, essendo ieri partito da Girgenti per quella volta il sig. Picone d. Nicolò, per fare forse da Padrino al Matrona. Si dice ancora, che ne avverrà un altro tra Matrona Napoleone e certo Cavallaro. Ma il Matrona trovasi attualmente in Girgenti in unione al fratello Paolino, il quale ieri ricevè un telegramma che alla lettura fu visto turbarsi; dietro di che partì il sig. Picone. »
«Telegramma decifrato del 4/9/1875 - Oggi questo Segretario Comunale ritornato. Dicesi duello sospeso da riprendere in 4 giorni. Qui sinora calma. Se avvenisse duello se ne faranno altri. F.to Macaluso Delegato.»
«Segretario Comunale Lauricella è uno dei secondi. Duello per attacchi personali con opposizione municipale. Dicesi di altri duelli. F.to Macaluso.»
«Finora conoscesi solamente barone Tulumello con due secondi fatti venire da Naro sia partito per costà (Girgenti) alle sei. Ignorasi terreno. F.to Macaluso.»
Il 4/9/1875 il prefetto convoca a Girgenti il segretario comunale Lauricella.
Nella sessione del 1875 il cav. Giuseppe matrona viene eletto membro del consiglio provinciale per il mandamento di Racalmuto per l’anno 1875.
Nel n.° 6 dell’8 maggio 1875 del “Don Bucefalo” vi è una “nostra corrispondenza” da Racalmuto. «2 maggio [...] vogliamo tenere parola dello stato anormale del comune di Racalmuto. Sotto crudele ed improba passione, giace questo deplorevole comune affidato al reggime (sic) di un sindaco ambizioso ... Sin dalla di lui promozione al potere, Racalmuto non ha altro segnalato che una amministrazione elevata al più vero assolutismo, ad una colluvie di irregolarità, meri capricci, ed infrazioni alle leggi rispetto a taluni atti della comune azienda [...]» Si parla di un “favoloso mutuo”; di una strada che appena appaltata “si dirupa”; alle enormi spese per il teatro e per le scuole femminili. «Briga per la costruzione di una strada rotabile tra i comuni Racalmuto-Favara, opera grandemente vessatoria e capricciosa che per fornire a questi magnati caporioni facile accesso alle rispettive casine, si condannano e proprietà ed interessi pubblici e privati.»
Eugenio Napoleone Messana fornisce una versione tutta sua alla vicenda del duello Matrona-Tulumello. [20] Vi innesta una faccenda d’alcova che avrebbe visto coinvolto Luigi Lauricella. Costui, segretario comunale, sarebbe stato gratificato dal Matrona con l’incarico ed un lauto stipendio in cambio dei favori della moglie, secondo quel che avrebbe sussurrato in un articolo di stampa il barone Tulumello. Soggiunge il Messana: «Sta di fatto che la moglie del Segretario si è suicidata e don Gasparino si è eclissato per molto tempo.» «Il segretario Lauricella lasciò Racalmuto meditando nel cuore vendetta. Non passò molto tempo e vide ad Agrigento il Matrona. Lo seguì a distanza pazientemente. Don Gasperino entrò nel negozio Scibetta in Via Atenea. All’uscita fu raggiunto da un colpo di pistola. Il segretario mirò al cuore ma sfiorando il gomito sinistro colpì il femore e si dileguò nella folla. L’assenza da comune indusse la giunta, indignata per le ingiuste accuse contro il suo sindaco, a protestare presso l’autorità tutoria, indi a dimettersi. Nel 1876 fu nominato sindaco l’avv. Gioacchino Savatteri, amico e dello stesso partito del Matrona.» Si sa: Eugenio Napoleone Messana è un immaginifico. Inventata o meno tutta codesta bardatura, a noi non resta che attendere incontri fortunati con carte d’archivio per una ricognizione critica della (salace)

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